di Stefano Lodigiani
Roma (Agenzia Fides) - Nel Ruanda travolto dall’immane carneficina del 1994, che raggiunse il numero impressionante di un milione di vittime su una popolazione all’epoca di 6.733.000 abitanti (al 44% cattolici), anche la Chiesa e i suoi membri non furono risparmiati dall’ondata di violenza e di morte che investì tutto il Paese (vedi Fides 03/04/2024). “Si tratta di un vero e proprio genocidio, di cui purtroppo sono responsabili anche dei cattolici” sottolineò Papa Giovanni Paolo II prima di recitare la preghiera del Regina Coeli domenica 15 maggio 1994, e ammonì: “vorrei nuovamente richiamare la coscienza di tutti quelli che pianificano questi massacri e li eseguono. Essi stanno portando il Paese verso l’abisso. Tutti dovranno rispondere dei loro crimini davanti alla storia, e anzitutto, davanti a Dio”.
Nel corso del “Grande Giubileo dell’Anno 2000”, durante una celebrazione liturgica, i Vescovi del Ruanda presentarono a Dio la richiesta di perdono per i peccati commessi dai cattolici durante il genocidio. Il 4 febbraio 2004, a dieci anni dalle violenze fratricide, i Vescovi ruandesi pubblicarono un lungo messaggio, in cui invitavano a “non dimenticare quanto è successo, e quindi a rafforzare la verità, la giustizia ed il perdono”. “Abbiamo sofferto molto per essere stati testimoni impotenti mentre i nostri connazionali subivano morti ignobili, torturati sotto lo sguardo indifferente della comunità internazionale; siamo stati anche profondamente feriti dalla partecipazione di alcuni nostri fedeli alle uccisioni” scrivevano i Vescovi, che ringraziavano Papa Giovanni Paolo II per la sua vicinanza durante il genocidio, e il suo grido dinanzi alla comunità internazionale. Ricordando i massacri, frutto di una cattiveria senza pari, i Vescovi invitavano “a costruire l’unità dei ruandesi”, sollecitando il contributo di ognuno “per salvaguardare la verità e la giustizia”, “domandando e accordando il perdono che viene da Dio”.
Anche nel giorno della conclusione del “Giubileo della Misericordia” (8 dicembre 2015-20 novembre 2016), i Vescovi pubblicarono una lettera che venne letta in tutte le chiese, con un nuovo “mea culpa” per i peccati commessi dai cristiani durante il genocidio. Come spiegò il Presidente della Conferenza Episcopale ruandese, Monsignor Philippe Rukamba, Vescovo di Butare, “non si può parlare di misericordia in Ruanda senza parlare di genocidio”. Nel testo si ribadiva la condanna del crimine di genocidio perpetrato contro i tutsi nel 1994 e di tutte le azioni e ideologie legate alla discriminazione su base etnica. Durante la visita del Presidente ruandese Paul Kagame a Papa Francesco in Vaticano, il 20 marzo 2017, la prima visita dopo il genocidio, il Vescovo di Roma “ha manifestato il profondo dolore suo, della Santa Sede e della Chiesa per il genocidio contro i tutsi, ha rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri… che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica”.
I dati sugli operatori pastorali uccisi nel 1994 furono raccolti, come di consueto, dall’Agenzia Fides non senza difficoltà. Vennero regolarmente interpellati gli istituti missionari (in particolare i Missionari d’Africa, Padri Bianchi, che avviarono l’evangelizzazione del Ruanda all’inizio del 1900), le congregazioni religiose, le diocesi, gli organi cattolici di informazione, oltre a verificare le scarne notizie che giungevano dalla Chiesa locale ruandese all’allora Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Tali dati rilevano che le vittime tra il personale ecclesiastico furono 248, compresi una quindicina di morti in seguito a maltrattamenti e a mancanze di cure mediche, e gli scomparsi di cui non si ebbero più notizie e quindi furono considerati uccisi.
L’elenco di operatori pastorali uccisi stilato a suo tempo dalla Agenzia Fides viene qui riproposto come allegato, in calce a questo articolo. Tale elenco è comunque è senza dubbio incompleto, in primo luogo perché prese in considerazione solo vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laiche consacrate, mentre a loro vanno aggiunti seminaristi, novizi, novizie e un gran numero di laici, come catechisti, animatori della liturgia, operatori della carità, membri di associazioni che nella Chiesa rivestivano un ruolo non secondario, coinvolgendo un gran numero di cattolici, soprattutto giovani. In molti casi neanche le diocesi avevano informazioni certe su quanti, in tempi normali, garantivano la vita delle comunità cristiane disseminate anche nei luoghi più impervi del “Paese delle mille colline”. Inoltre nel 1994 non si disponeva ancora dei moderni strumenti di comunicazione che consentono di superare in pochi secondi distanze planetarie.
L’Agenzia Fides, come è possibile constatare scorrendo i bollettini cartacei di quel periodo, pubblicava regolarmente gli aggiornamenti di quel drammatico elenco, a mano a mano che riusciva a raccogliere e verificare le notizie relative ai massacri ed ai vescovi, sacerdoti e religiosi uccisi. Secondo il quadro ricostruito da Fides, nel 1994 hanno perso la vita in modo violento in Ruanda 3 Vescovi e 103 sacerdoti (100 diocesani di tutte e 9 le diocesi del Paese e 3 padri Gesuiti); 47 fratelli di 7 istituti (29 Giuseppini, 2 Francescani, 6 Maristi, 4 Fratelli della Santa Croce, 3 Fratelli della Misericordia, 2 Benedettini e 1 fratello della Carità).
Le 65 religiose appartenevano ad 11 istituti: 18 suore Benebikira, 13 suore del Buon Pastore, 11 suore Bizeramariya, 8 suore Benedettine, 6 suore dell’Assunzione, 2 suore della Carità di Namur, 2 domenicane Missionarie d’Africa, 2 Figlie della Carità, 1 rispettivamente delle Ausiliatrici, di Notre Dame du Bon Conseil e delle Piccole sorelle di Gesù.
A loro vanno aggiunte almeno 30 laiche di vita consacrata di 3 istituti (20 Ausiliarie dell’Apostolato, 8 dell’istituto “Vita et Pax” e 2 dell’istituto San Bonifacio).
A 30 anni dal genocidio ruandese, riportiamo di seguito alcune testimonianze di quel tragico periodo, che furono pubblicate da Fides: nelle atrocità cui parteciparono anche alcuni cattolici, fiorirono atti di eroismo di quanti arrivarono al sacrificio della propria vita per salvare quella degli altri.
“Qualunque cosa accada, resteremo qui”: tre Vescovi uccisi a Kabgayi
Tre Vescovi furono uccisi a Kabgayi, il 5 giugno 1994, insieme ad un gruppo di sacerdoti che li accompagnavano mentre portavano aiuto e conforto alle popolazioni sfollate, stremate dalla violenza. Erano l’Arcivescovo di Kigali, Mons. Vincent Nsengiyumva; il Vescovo di Kabgayi e Presidente della Conferenza Episcopale Ruandese, Mons. Thaddee Nsengiyumva, e il Vescovo di Byumba, Mons. Joseph Ruzindana. In una lettera che avevano scritto pochi giorni prima della morte, il 31 maggio, supplicavano la Santa Sede e la Comunità internazionale di dichiarare Kabgayi “città neutrale”: qui si erano radunati 30.000 sfollati, sia hutu che tutsi, che avevano trovato rifugio nelle strutture cattoliche aperte a tutti, senza distinzioni, come l’episcopio, le parrocchie, i conventi, le scuole, ed un grande ospedale.
“Qualunque cosa succeda a noi, resteremo qui, per proteggere la popolazione e gli sfollati” avevano scritto nella lettera-appello. Nonostante fosse stata data loro la possibilità di mettersi in salvo, vollero restare lì, perché pensavano che la loro presenza avrebbe in qualche modo protetto l’intera popolazione, compresi i rifugiati. Posti sotto la protezione di alcuni soldati ribelli del Fpr (Fronte Patriottico Ruandese) vennero assassinati da questi. In quei giorni si susseguirono altri massacri attribuiti a membri del Fpr, tra cui quello di Kigali in cui vennero uccise una settantina di persone, tra cui dieci religiosi, che insieme ad altre centinaia di rifugiati si erano raccolti in una chiesa.
“Che i Pastori, scomparsi con tanti altri loro fratelli e sorelle caduti nel corso di scontri fratricidi, trovino per sempre nel Regno dei cieli, la pace che è stata loro negata nella loro amata terra” scrisse il Santo Padre Giovanni Paolo II in un messaggio ai cattolici del Ruanda del 9 giugno 1994. “Imploro il Signore per le comunità diocesane, private dei loro Vescovi e di numerosi sacerdoti, per le famiglie delle vittime, per i feriti, per i bambini traumatizzati, per i rifugiati” proseguiva il Pontefice, supplicando tutti gli abitanti del Ruanda come i responsabili delle nazioni, “di fare subito tutto il possibile affinché si aprano le vie della concordia e della ricostruzione del paese così gravemente colpito”.
La prima Messa celebrata nel luogo dove era stata sterminata la sua famiglia
Padre Gakirage ha celebrato la prima Messa nello stesso luogo in cui erano stati uccisi i suoi fratelli. Questo il racconto che fece della sua vita e dei momenti che precedettero la sua ordinazione sacerdotale.
"Sono nato a Musha, vicino Kigali, la capitale del Ruanda, il 14 novembre 1960, da una famiglia numerosa e profondamente religiosa della tribù tutsi. Sin da bambino ho sentito sempre una certa attrazione per la vita religiosa e missionaria. Quando ero nel seminario minore della mia diocesi mi si presentò la prima prova: scoppiò il primo conflitto tra hutu e tutsi, e molti compagni vennero uccisi. Nel seminario non mi sentivo a mio agio perché, mentre fuori la gente si ammazzava, avevo l'impressione che i sacerdoti non denunciassero abbastanza questi mali. Così volevo essere sacerdote? Lasciai il seminario ed andai in Uganda per studiare altre materie. Stavo per entrare alla facoltà di medicina, quando sentii fortemente la chiamata di Gesù. Entrai nel seminario comboniano e nel 1990, finito il noviziato, sono andato in Perù per studiare teologia. Quattro anni più tardi sono rientrato nella mia patria per essere ordinato sacerdote. L'ordinazione doveva avvenire nel mio paese, ma passando da Roma, seppi che la mia famiglia era stata assassinata da un gruppo di militari hutu. Ciò è avvenuto alla vigilia della mia ordinazione, e per me cambiò tutto. Dopo la triste notizia, non potendo tornare in Ruanda, proseguii per l'Uganda, dove sono stato ordinato sacerdote.
Volendo sapere se qualcuno dei miei familiari si fosse salvato, lo stesso giorno dell'ordinazione cercai di superare la frontiera ed arrivare in Ruanda. Il mio viaggio non avrebbe avuto successo senza la provvidenza di Dio. Infatti alla frontiera incontrai la scorta che accompagnava il Cardinale Roger Etchegaray, Presidente del Pontificio Consiglio "Justitia et pax", che si recava in visita ufficiale in Ruanda a nome del Papa.
Il giorno dopo, era il 28 giugno, alcuni soldati mi accompagnarono a Musha. Già nel mio paese, desolato e distrutto dalla guerra, il primo desiderio fu quello di celebrare la prima Messa tra quelle rovine. Era doloroso pensare che quel luogo in cui mi trovavo era lo stesso in cui erano stati assassinati fratelli e sorelle, oltre a 30 giovani tutsi. Quando mi fermai a pensare che non avrei trovato nessun familiare vivo, mi assalì una profonda tristezza. Sorprendentemente però, rivolgendo lo sguardo oltre la pietra che mi faceva da altare, vidi tre bambini: le due figlie di una delle mie sorelle e il figlio di una cugina. Erano gli unici sopravvissuti di un clan che, prima del 6 aprile, era formato da 300 persone. Fui colto dall'emozione e non riuscii a trattenere le lacrime che inondavano i miei occhi. Mi calmai, alzai la testa e continuai la celebrazione ringraziando Dio perché, miracolosamente, quei tre bambini erano rimasti vivi.
Nella mia prima omelia parlai della resurrezione. Non furono parole vuote né di commiserazione. Ho parlato della nostra resurrezione, ho detto che noi siamo la nostra resurrezione. E' davvero difficile far riferimento a questa realtà in mezzo a tanta morte e distruzione. E' come la debole fiamma di una candela che il vento tempestoso cerca di spegnere”.
La fede Maria Teresa e di Felicitas: “E’ il momento di testimoniare”, “ci ritroveremo in Paradiso”
Maria Teresa è hutu. Insegna a Zaza. Suo marito Emmanuel è tutsi. E’ operaio specializzato presso la scuola di Zaza. Hanno 4 figli, 3 maschi e una femmina. Domenica 10 aprile Emmanuel parte con il figlio maggiore per nascondersi. “Lunedì notte sono tornati per darci l’addio” racconterà Maria Teresa. Infatti il 12 aprile sono individuati e massacrati. Maria Teresa apprende la notizia mentre è dai suoi genitori, dove si è rifugiata insieme ai figli dopo che la loro casa è stata saccheggiata. Il 14 aprile 4 uomini vengono a cercare i suoi figli maschi per ucciderli.
Maria Teresa sente di dover preparare i figli: “Bambini miei, gli uomini sono cattivi in questo momento, hanno fatto morire il vostro papà e vostro fratello Olivier. Sicuramente vi cercheranno, ma non abbiate paura. Soffrirete un po’ ma poi vi riunirete al vostro papà e a Olivier, perché c’è un’altra vita con Gesù e con Maria, e noi ci ritroveremo e saremo molto molto felici”. Il giorno stesso sono venuti a cercare i bambini e chi ha assistito ha testimoniato che erano stati molto coraggiosi e molto calmi.
Felicitas ha 60 anni, è hutu ed è Ausiliaria dell’Apostolato a Gisenyi. Lei e le sue consorelle hanno accolto nella loro casa dei rifugiati tutsi. Suo fratello, colonnello dell’esercito a Ruhengeri, sapendola in pericolo, le chiede di partire e quindi di sfuggire ad una morte certa. Ma Felicitas gli risponde per lettera che preferisce morire con le 43 persone di cui è responsabile piuttosto che salvarsi da sola. Continua quindi a salvare decine di persone aiutandole a passare la frontiera.
Il 21 aprile arrivano le milizie a cercarla e la caricano insieme alle consorelle su di un camion, dirigendosi al cimitero. Felicitas incoraggia le consorelle: “E’ il momento di testimoniare”. Sul camion cantano e pregano. Al cimitero, dove sono pronte le fosse comuni, i miliziani temendo la collera del colonnello, offrono a Felicitas la possibilità di salvarsi, anche dopo aver ucciso tutte le 30 sorelle Ausiliarie dell’Apostolato, ma lei risponde: “Non ho più ragione di vivere dopo che avete ucciso le mie sorelle”. Felicitas sarà la 31.ma vittima.
I missionari: nella brutalità sono fioriti anche i frutti della fede
Padre Jozef Brunner, dei Missionari d’Africa, Padri Bianchi, condivise la testimonianza di un suo confratello, che per molti anni aveva diretto il Centro di formazione per i leader delle comunità cristiane, a Butare. “Le orecchie e gli occhi dei giornalisti non hanno notato qualcosa, affermava il missionario: la fede radicata e vissuta profondamente dai cristiani, dai più semplici fino agli istruiti, dai funzionari, dai soldati, che hanno sacrificato le loro vite per il prossimo. Nella stessa misura delle brutalità commesse, sono anche fioriti atti di autentico eroismo. Certamente la Chiesa è stata nel mirino della violenza: il suo messaggio di pace e di unità era un ostacolo per gli estremisti. Non si spiegherebbe altrimenti come mai siano state massacrate dalle 4 alle 6 mila persone rifugiatesi nelle chiese e non quelle radunate nei municipi. Diversi sacerdoti sono stati uccisi mentre tentavano di salvare queste persone. Alla televisione ho visto otto dei miei alunni che lavavano e curavano alcuni bambini abbandonati: in questo modo i miei alunni sono diventati i miei maestri”.
Anche le Suore Bianche hanno condiviso la loro esperienza con queste parole: “Siamo state testimoni della pace di Dio e dell’accettazione completa del suo volere, dimostrate da quanti sono stati condotti alla morte come l’agnello che si porta al macello”.
(Agenzia Fides 13/4/2024)
L’elenco completo stilato da Fides di Vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose uccisi nel 1994
https://www.fides.org/it/news/2700-IL_MARTIROLOGIO_DELLA_CHIESA_IN_RWANDA_NEL_1994