di Gianni Valente
«Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». La frase di Gesù rivolta al Padre e riportata nel Vangelo secondo Giovanni è il titolo dell’ultima Lettera Pastorale del Domenicano francese Jean-Paul Vesco, insediatosi come Arcivescovo di Algeri l’11 febbraio 2022. Sono parole umanamente «folli». sulle quali «Gesù giudica se stesso ponendosi sotto lo sguardo del Padre» e che ogni Vescovo e pastore consapevole dei propri limiti dovrebbe guardarsi dal proporre come criterio di giudizio del proprio operato Eppure, a conclusione della stessa lettera, l’Arcivescovo Vesco sembra rilanciare la posta, quando scrive che che «Ogni persona, qualunque sia la sua origine la sua religione, può essere guardata come un fratello, come una sorella che io non devo perdere». Perché «la fraternità offerta a tutti, senza considerazione per le appartenenze religiose, etniche o nazionali» – aveva già scritto lo stesso Vescovo domenicano in occasione della Canonizzazione di San Charles de Foucauld - «è il marchio di fabbrica della fratellanza dei discepoli di Cristo».
62 anni, nato a Lione, prima di diventare Arcivescovo di Algeri Vesco ha vissuto 10 anni alla guida della diocesi algerina di Orano. Papa Francesco ha deciso di crearlo Cardinale nel Concistoro di sabato 7 dicembre. Una nuova condizione - è convinto l’Arcivescovo Vesco - da vivere nell’orizzonte aperto della fraternità universale, nel servizio alla “Chiesa-mosaico” d’Algeria. Un segno che «mi chiama e mi spinge a essere più umile, perché mi riporta costantemente al mistero del perché mai sono stato scelto».
Lei, Frate Predicatore, per descrivere il tratto proprio della Chiesa in Algeria ha utilizzato l’immagine della “Chiesa della discrezione”. Cosa vuol dire predicare e confessare il Vangelo “con discrezione"?
JEAN-PAUL VESCO: Quando parlo di discrezione della Chiesa, non intendo dire che non abbiamo il diritto di fare niente. Il Vangelo si annuncia ‘opportune et importune’ attraverso la testimonianza, ma con discrezione, cioè nel rispetto della fede dell'altro. La specificità dell'annuncio del Vangelo in Algeria, nel mondo musulmano, è che parte da una vita condivisa tra persone che hanno già una fede, una fede differente. In questo senso, si tratta di una situazione diversa rispetto a quelle di prima evangelizzazione o alla testimonianza resa in società come quelle dell'Europa scristianizzata.
Per me la testimonianza evangelica non può essere separata dal rispetto per la fede dell'altro. Io testimonio ciò che vivo, parlo quando sono interrogato, rendo ragione della mia fede, ma lo faccio accettando che c'è nell'altro qualcosa, una verità che mi sfugge. Sono arrivato in Algeria per rinnovare una presenza domenicana dopo la morte di Pierre Claverie (Vescovo di Orano ucciso da una bomba nel 1996, ndr). Misteriosamente, benché non l'avessi mai conosciuto, ho sentito che c’era un legame spirituale tra di noi. Lui diceva: «Nessuno possiede Dio, nessuno possiede la verità, e io ho bisogno della verità degli altri».
La Chiesa d’Algeria e le altre Chiese di rito latino del Nord Africa adesso afferiscono al Dicastero per l’Evangelizzazione, il Dicastero “missionario”. Cosa vuol dire essere missionari nei vostri Paesi?
VESCO: Per me la figura ultima del missionario è quella della fraternità e dell'amicizia. Ripenso alla Dichiarazione sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, che non è solo un ennesimo documento sul dialogo interreligioso, ma è il gesto compiuto da due persone, due capi religiosi, due uomini che non cercano di convincersi a vicenda. Il Papa e il Grande Imam sono due uomini che apprezzano la fede dell'altro. E questo non era mai esistito a un tale livello. Quando ho visto questi due uomini guardarsi e sorridere, ho visto due fratelli. Ho percepito l'amicizia tra loro. Quando ho avuto un'udienza con Papa Francesco, gli ho detto che questa era la cosa che mi aveva colpito di più del suo Pontificato, perché si ricollega alla nostra esperienza in Algeria.
A cosa si riferisce, in particolare?
VESCO: Qualche mese prima c'era stata la beatificazione dei 19 martiri d’Algeria a Notre-Dame di Santa Cruz, a Orano, e alla fine della celebrazione i volti erano luminosi, illuminati da enormi sorrisi. Tre mesi dopo, all'incontro di Abu Dhabi, ho visto lo stesso sorriso tra Papa Francesco e il Grande Imam Ahmed al Tayyeb.
La più grande testimonianza evangelica che la Chiesa può dare è quella della fratellanza, la fratellanza tra di noi, cominciando dall’interno della Chiesa. «Da questo tutti vedranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» dice Gesù… Il Papa vuole far emergere proprio questo nella Chiesa di oggi.
Come si può sperimentare e come si manifesta la fraternità tra persone di fedi diverse?
VESCO: Certo, non basta dire: “Questo è mio fratello o questa è mia sorella”. In Algeria tutti si chiamano fratello o sorella, il modello è quello della famiglia. Ma quando un algerino musulmano a volte mi dice “tu sei mio fratello”, sta dicendo una cosa seria. Sta dicendo che sei mio amico. E in quel momento avviene qualcosa dell'ordine della trasmissione della fede.
Nessun musulmano, anche se colto, mi ha mai detto qualcosa di veramente essenziale sulla nostra fede. D'altra parte, abbiamo bisogno della fede dell'altro. Ho bisogno di entrare in contatto con musulmani di buona fede, non per credere nella loro fede, ma per entrare in uno scambio autentico; e per mostrare loro qualcosa della mia fede. L'amicizia, come la fraternità, si basa sulla gratuità della relazione. Finché non c'è relazione gratuita, non credo che il tesoro del Vangelo possa essere trasmesso.
La storia recente della Chiesa d’Algeria è segnata dall’esperienza del martirio. Questa esperienza come ha cambiato il vostro cammino?
VESCO: La Chiesa d’Algeria è una Chiesa di martiri, e i nostri martiri sono martiri della fraternità. Papa Francesco ha inviato un messaggio il giorno della beatificazione, dicendosi persuaso che che quell’evento senza precedenti avrebbe tracciato “nel cielo algerino un grande segno di fraternità indirizzato a tutto il mondo”… Se sono martiri, è perché hanno corso il rischio di vivere: potevano andarsene, e sono rimasti, e per questo il loro è un martirio di fratellanza.
Spesso le sofferenze subite da cristiani vengono evocate per accrescere contrapposizione e condanna verso figure e gruppi identificati come nemici e persecutori…
VESCO: negli stessi anni segnati dalle morti cruente di quei martiri, furono uccisi in Algeria più di 100 Imam e 200mila musulmani. La forza della testimonianza dei martiri è che hanno voluto rimanere per condividere un destino comune. La loro morte convalidava il loro impegno a vivere una determinata vita. Abbiamo voluto che i 19 fossero beatificati insieme per riaffermare che sono stati la testimonianza di un'intera Chiesa in un momento particolare della storia, in mezzo a un popolo.
Cosa vuol dire, come ha detto Lei, che la Chiesa in Algeria è stata “purificata” dalla vicenda dei martiri?
VESCO: Sono arrivato in questa Chiesa nel 2002, in un momento in cui la vita stava tornando alla normalità, ma niente era già come prima… La gente doveva reimparare a vivere, e non era facile. Era un po' come dopo una guerra: gli eroi tornano alla società normale, ma è inevitabilmente complicato. Un gesuita, Paul Decisier, diceva: eravamo persone ordinarie che vivevano in una situazione straordinaria, e ora bisognava ritornare all’ordinario. È stato molto toccante per me vederli attraversare questo passaggio.
Il colore rosso legato al cardinalato richiama il sangue dei martiri… Lei concorda?
VESCO: La mia scelta come Cardinale rimane un mistero profondo per me... Ma qualunque sia la ragione per cui sono stato nominato, ciò che conta è che io mi chieda adesso cosa vuole per me il Signore.
Il rosso del Cardinalato mi rende umile, perché so di non meritarlo rispetto a tanti altri. Vorrei che fosse un segno di semplicità. Non mi rende un principe della Chiesa, al contrario mi chiama e mi spinge a essere più umile perché mi riporta costantemente al mistero del perché mai sono stato scelto.
Come è iniziata la sua vocazione sacerdotale e religiosa?
VESCO: Il mio ingresso nei domenicani è stato molto improvviso. Sono entrato a 33 anni, ero avvocato e avevo sempre sentito la vocazione di essere avvocato. Avevo sempre immaginato la mia vita sotto forma di vocazione, che a un certo punto si è concretizzata nel coinvolgimento nei sindacati e nella politica, e poi come consigliere comunale. Sono diventato avvocato, e allora ho avuto l'impressione di aver raggiunto il soffitto di cristallo. Avevo raggiunto tutto quello che volevo, ma non avevo trovato la felicità, mancava ancora qualcosa.
Questo soffitto di cristallo è crollato a Lisieux il 14 agosto 1994. Ero andato a trovare un amico monaco e quel giorno c'era un'ordinazione sacerdotale. Ho percepito che il Signore mi stava chiamando in quel momento. C'è stato un prima e un dopo quel 15 agosto 1994, quando ho detto sì nell’intimo del mio cuore.
E i Domenicani cosa c’entrano?
VESCO: Avevo uno zio domenicano, Jean-Luc Vesco, e si dava il caso che il mio studio fosse accanto al convento in cui viveva, così andavo spesso a trovarlo e mi dicevo sempre che se un giorno avessi preso gli Ordini sacri, sarebbe stato ovunque, tranne che dai domenicani… Poi però, in un modo molto misterioso, ho avvertito che era lì che dovevo andare.
La lettera di Avvento di voi Vescovi del Nord Africa ha detto che non si può sfruttare la Bibbia per giustificare la guerra e l’occupazione…
VESCO: Il 10 ottobre 2023, tre giorni dopo il 7 ottobre, ho scritto che ciò che Hamas aveva fatto era inescusabile, ma non senza cause. Ho vissuto a Gerusalemme per due anni, sono andato a Gaza, ho vissuto l'umiliazione di queste persone e ho anche conosciuto molti israeliani che erano contro Netanyahu. Tutto ciò che posso constatare è che per più di 20 anni Netanyahu e i suoi alleati non hanno voluto la pace, non hanno voluto una soluzione a due Stati, e siamo effettivamente in una logica di annientamento. Questa politica è genocida, il che significa che non c'è via d'uscita se non dopo aver assolutamente distrutto un popolo come tale. La nostra posizione come Conferenza episcopale è quella di dire che la guerra non porta la pace. La guerra schiaccerà, ma non porterà la pace.
Quali sono le responsabilità internazionali in quello che succede in Terra Santa e Medio Oriente?
VESCO: Trovo molto difficile assistere alla colonizzazione degli ultimi 20 anni nel XXI secolo. Colonizzazione per schiacciamento ed espulsione. Il mondo intero sta tornando alla regola del più forte. È sempre stato così, anche se c'è stato un periodo in cui abbiamo sperato che fosse diverso. Quando sono nato, avrei potuto credere che gli equilibri sarebbero stati regolati, ma non è stato così.
La morale politica che sta prendendo forma in molte parti del mondo è la legge del più forte. E la pace e la felicità dei popoli non possono essere costruite su questa immoralità. (Agenzia Fides 6/12/2024)