Roma (Agenzia Fides) - Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo l’intervista al Dott.
Roberto Garofano, Medico-Chirurgo. Specializzato in Geriatria e Gerontologia. Dirigente Medico ex 1° livello presso la A.S.L n°6 di Palermo; perfezionato in Bioetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, frequenta dall’anno accademico 2006/07 il Master di II livello su Bioetica e Formazione presso la Pontificia Università Lateranense in Roma; docente al Master di I livello dell’Istituto Siciliano di Bioetica per la materia “tanatologia e Cure di fine-vita”; autore di numerose pubblicazioni in ambito di geriatria, medicina del lavoro e cure palliative.
Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Il recente sforzo che la politica sta attualmente compiendo nel tentativo di mettere a punto un dettato legislativo sulla materia del cosiddetto “testamento biologico” mi appare, nell’atteggiamento concettuale che lo ispira e lo sostiene, fondato su un sentimento di sospettoso scetticismo da parte del cosiddetto uomo della strada, nei confronti di un’inadeguata offerta di cura. E’ vero che il medico, chiamato a proporzionare le sue cure alle varie esigenze cliniche si ritrova, spesso, davanti a situazioni di difficile lettura, ma non credo sia accettabile che chiunque, privo di sapere su cosa siano manovre rianimatorie, assistenza respiratoria, alimentazione e idratazione artificiali, cardioversione elettrica, ecc… , ignaro su chi potrebbe somministrargli tali cure e sulle condizioni nelle quali potrebbe trovarsi qualora si dovesse prospettare l’uso di una o più di tali tecnologie, possa pregiudizialmente porre veti su tali applicazioni, e che possa farlo ora per dopo. Se ciò succede, evidentemente, è perché il complesso tecnologico di cui dispone la medicina moderna può ispirare più sentimenti di paura che di rassicurazione, perché il personale che vi opera, impropriamente raffigurato nelle fiction televisive di provenienza da oltreoceano ed ancora più impropriamente immaginato impersonalmente uguale a quegli attori, desta più sospetti che fiducia.
Che cosa intende per accanimento terapeutico?
E’ accanimento tutto ciò che viene fatto nell’ignoranza di quali siano effettivamente i mezzi terapeutici di cui si dispone o di quale sia realmente la condizione globale del paziente che si ha davanti; il più delle volte le due situazioni possono in vario modo coesistere. In tali condizioni le probabilità che l’applicazione dei primi sul secondo siano davvero proporzionate e corrette sono pochissime. Il più delle volte si eccede, dietro spinte emotive, economiche, psicologiche, o di altra natura.
Che cosa intende per eutanasia?
C’è un problema molto ampio su quello che è il concetto di morte nella nostra cultura: il rapporto che il nostro mondo occidentale industrializzato e tecnologico ha con il pensiero della sofferenza e della morte non è in un equilibrio bilanciato. L’uomo moderno vive male l’errore della morte; essa non è che un incidente di percorso lungo la strada del progresso bio-tecnologico destinato a regalarci l’immortalità. Anche la mentalità eutanasica che galleggia nelle nostre coscienze è frutto di questo squilibrio. La morte non può essere vissuta come parte integrante della vita umana, quindi è giusto by-passarla, comprimerla, anestetizzarla. Se una vita umana degrada sotto i criteri dell’utile, del produttivo, del qualitativamente accettabile (criteri stabiliti da una maggioranza di forti) non appare più rispettabile o, come si preferisce dire, dignitosa. La sua soppressione appare il gesto più indicato, nel tentativo titanico di restituirle, appunto, la sua dignità. E’ il paradosso della ricerca dell’umano in ciò che obiettivamente è più disumanizzante.
Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Il Codice è certamente lo strumento centrale per l’orientamento deontologico di ogni medico. La corretta applicazione dei suoi dettami basterebbe a risolvere ogni dubbio. Certo, ci sono situazioni di difficile lettura, che meriterebbero un’analisi etica più approfondita, ma proprio il Codice prevede che, oltre i necessari aggiornamenti scientifici, anche la coscienza di ogni professionista debba compiere degli opportuni percorsi formativi. E poi, dimentichiamo forse i Comitati Etici?
C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
Il problema è la distanza. C’è distanza tra i mezzi che l’uomo ha elaborato per sconfiggere la sofferenza e la sofferenza stessa; c’è distanza tra la tecnica e l’oggetto della sua possibile applicazione. Ma soprattutto c’è distanza tra chi cura e chi va curato, tra l’uomo che soffre e chi si adopera in un possibile aiuto. C’è una distanza che è fatta di linguaggi vicendevolmente incomprensibili, di mancanza di contatto, di sguardi che non si incrociano. C’è una distanza eccessiva tra la sofferenza percepita da chi la sta sperimentando umanamente e la probabile disumanità di chi è chiamato a trattarla e dei mezzi che potrebbe utilizzare. C’è inoltre il tentativo, almeno in una parte della classe medica, forse quella più esposta sul versante delle cure di fine vita, di barricarsi dietro decisioni che non siano le proprie, dietro l’ennesimo protocollo da aggiungere al coacervo degli altri protocolli di cura, per affidare ad altri (chi, meglio dello stesso paziente, in una dichiarazione anticipata?) responsabilità che fino ad oggi sono state ad intero suo carico.
Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata la morte del paziente?
Io mi occupo da molti anni di Cure Palliative; più in generale i miei interessi si sono rivolti, da geriatra, essenzialmente alle fasi finali della vita. Per lo specifico di questa attività non si pone quasi mai la possibilità di salvare vite: semmai deve essere fatta salva la garanzia di trattamenti autenticamente proporzionati alle condizioni cliniche dei pazienti che vivono l’ultima fase della loro vita. Ciò che mi è capitato più di frequente è la correzione di programmi terapeutici non proporzionati che vengono rivolti a tali pazienti prima che essi facciano ingresso nella “rete” di Cure Palliative. Si tratta di calibrare interventi impostati in precedenza da operatori non addestrati alle cure di fine-vita (alcuni Oncologi, alcuni Medici di Medicina Generale, ecc…), oppure di persuadere i familiari dei pazienti che procrastinare indebitamente certe cure può persino portare ancora maggiori sofferenze al loro congiunto. Il subentrare della morte non è certo da addebitare alla sospensione intempestiva di tali cure, ma dopo una corretta informazione questo appare chiaro a tutti.
Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
Il Testamento è un atto legale; un atto legale offre indubbie garanzie ai contraenti e costituisce un punto di riferimento per entrambi. Detto questo, bisogna considerare lo specifico di un rapporto medico-paziente. Questo è subordinato certamente ai molteplici condizionamenti esterni nel quale si svolge, e fra questi possono anche esserci situazioni di particolare delicatezza, fattori dotati di potenziale lesività tanto per il paziente quanto per il medico. Ma ciò che non può mai essere sottinteso è che questa relazione particolare, quella, cioè, che lega chi cura a chi è curato, ha una valenza antropologica di portata unica, per la quale ogni inclusione estrinseca, sia pure quella della Legge, può apparire per sua natura inopportuna. Pianificare i trattamenti è l’operazione più corretta, qualora venga compiuta nel massimo rispetto delle rispettive dignità, delle competenze e del raggiungimento di precisi obiettivi, concordati e reciprocamente accettati. Anche nell’eventualità che il paziente non possegga la capacità di esercizio della propria libertà e dell’espressione delle proprie decisioni, la relazione con chi può vicariare - legittimamente - tali capacità avrà il suo valore e potrà essere considerata espressione autentica del paziente. Ma, a ben vedere, anche la relazione con un parente prossimo del paziente è una relazione di cura.
L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
La mia realtà è quella di una grande città: Palermo. Qui le Cure Palliative hanno una storia già di più di 20 anni, ma la mia città costituisce un’eccezione in un panorama meridionale nel quale ancora la cultura delle Cure di fine-vita non sembra sufficientemente diffusa. In questi anni abbiamo cercato di offrire la risposta più valida all’abbandono terapeutico e, più in generale, all’onta di un cattivo morire. Ci siamo riusciti in un numero molto alto di casi. Ci siamo certamente accorti che la grande maggioranza delle richieste di eutanasia celavano, in realtà, la forte, estrema, urlata domanda di aiuto contro il dolore, la sofferenza, la paura. Una volta fatta la corretta lettura di tale domanda, l’offerta delle cure è stata in genere coronata dal successo di un buon morire. E’ pur, vero, comunque, che quelle richieste non ci sono sembrate quasi mai autentiche richieste di eutanasia, proprio per il carattere di mascheramento delle richieste del vero aiuto. Eppure le vere domande di eutanasia ci sono state, e ci sono ancora. Sono quelle - non molte, in verità- che vengono fuori da vite condotte sotto un certo orizzonte laico e razionalista, freddo e, a volte, spietato. Ma in quei rari casi la domanda è una domanda altra, per la quale la risposta più adeguata - l’apertura ad un orizzonte di senso - non ha più il tempo necessario perché gli venga offerta e possa da lui essere accolta. (14 - continua) (D.Q.) (Agenzia Fides 5/3/2008; righe 117, parole 1531)