EUROPA/ITALIA - Il testamento biologico: contributi alla riflessione (6)

mercoledì, 20 febbraio 2008

Roma (Agenzia Fides) - Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo la seconda parte dell’intervento della Dottoressa Laura Guerrini (vedi Fides 19/2/2008).

Che cosa intende per eutanasia?
L’eutanasia è ogni azione o omissione che ha come fine procurare la morte di una persona. Vorrei sottolineare che l’eutanasia può consistere sia nella soppressione di cure ordinarie, sia nella somministrazione di farmaci, in quanto sarà il fine di quello che facciamo a conferire il vero significato alla nostra azione e se entrambe le procedure hanno come fine quello di impedire la sopravvivenza del malato, quello che commettiamo è sempre e comunque un atto eutanasico. L’intenzione che guida il nostro agire non ne modifica il significa intrinseco: questo credo sia un aspetto molto importante, perché anche i recenti fatti di cronaca (il marito che uccide la moglie malata di Alzheimer perché non poteva più vederla soffrire), ma soprattutto il modo con cui vengono presentati, sembrano voler far passare un messaggio molto pericoloso: tutto è giustificato se voglio alleviare le sofferenza o presunta sofferenza di una persona. Diventa allora non solo accettabile, ma addirittura doveroso uccidere (perché di questo si tratta), una persona gravemente malata così come non far nascere un bambino con handicap, certo o presunto che sia, nell’idea sempre più dominante che la vita valga solo se è al di sopra di certi standard di benessere: ma chi li stabilisce e con quali criteri?
Ancora una volta esprimo, come medico e come cittadino, grande preoccupazione di fronte a questa mentalità sempre più dominante, perché per ora ci fanno credere che ciascuno di noi sia arbitro della proprio vita (e già su questo si potrebbe discutere a lungo), ma ben presto ci accorgeremo (e forse a ben vedere è gia vero) che saranno altri a decidere se e fino a quando dobbiamo vivere: la storia passata e quello che oggi sta succedendo nei Paesi dove l’eutanasia è legale dovrebbe essere un richiamo sufficiente.
Come medico poi, non posso non considerare le ripercussione che tutto questo avrà sull’essenza della mia professione, condividendo le preoccupazioni espresse che gia alcuni anni fa Herranz, che ha descritto l’eutanasia come il “vortice di una scelta di morte”: “Una volta che si sia accettato anche una sola volta, mossi da falsa compassione, di praticare l’eutanasia in via eccezionale, essa si trasforma rapidamente in una passione mortale che avvelena il cervello ed il cuore del medico. Diventa logicamente e tragicamente necessario pensare che il medico, come esperto, debba acquisire un potere discrezionale sulla vita e sulla morte delle persone. Il medico finirà con il pensare che vi sono pazienti il cui desiderio di continuare a vivere è irrazionale e capriccioso, poiché reputa che la vita che essi hanno davanti sia biologicamente detestabile, un peso sociale intollerabile, uno sperpero economico. Il medico sentirà come un dovere sociale l’assumersi la responsabilità morale di porre fine a tali vite inutili e gravose.” (Il dramma dell’Eutanasia, 30 Aprile 1995)

Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Secondo me sì, infatti l’Art. 17 dice: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte” e l’Art. 39 (Assistenza al malato a prognosi infausta) “In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psicofisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita e della dignità della persona. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico.” Purtroppo è vero anche che nell’ultima stesura del 2006 sembrano fare breccia alcuni messaggi che potrebbero diventare pericolosi, là dove nell’Art. 38: si legge “Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto (che ha sostituito il “non può non tenere conto” della precedente edizione) di quanto precedentemente manifestato dal paziente”.

C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
Credo che tale conflitto ci possa essere nel momento in cui le volontà espresse in precedenza dal paziente vengano vissute come “obblighi” per il medico e quindi è un contrasto che potrebbe nascere proprio con il testamento biologico. Infatti il medico è chiamato ad agire per il bene del paziente e dovrebbe farsi garante di questo nel momento in cui il paziente non è in grado di esprimere le sue preferenze. Una cosa così importante non può essere affidata ad un documento redatto magari anni prima, fuori dal contesto di malattia (come dicevamo prima) e non potendo conoscere né tutti gli aspetti legati ad una malattia, né tanto meno rimanere aggiornati sui progressi della medicina.
Io credo che tale conflitto verrebbe annullato nel momento in cui fosse possibile recuperare la vera essenza della medicina, incarnata nel rapporto medico-paziente, che parte prima di tutto dalla figura del medico di famiglia: infatti, solo la frequentazione costante e un rapporto di fiducia collaudato negli anni potrebbe permettere, nel momento in cui si presenta una situazione critica in cui quel paziente non è in grado di esprimere le sue opinioni, al medico che lo conosce di sapere fino a che punto è giusto andare.

Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata la morte del paziente?
Come neonatologo vivo una situazione sicuramente un po’ particolare dato che i miei pazienti non sono in grado di esprimere delle indicazioni. Non che questo renda più semplice il mio lavoro, anzi penso che mi obblighi a riflettere costantemente proprio su quello che è il bene di ogni singolo neonato affidato alle mie cure, dovendo anche relazionarmi ai genitori che vivono una situazione drammatica e che devono essere coinvolti nel modo giusto nelle scelte terapeutiche che riguardano i loro figli nella consapevolezza però che, proprio per il “patto di fedeltà” che noi abbiamo nei confronti del neonato, non potremmo mai assecondare i genitori in richieste che fossero contrarie all’interesse del neonato stesso. In tutti questi anni mi sono resa conto che quello che chiedono i genitori è il nostro massimo impegno per cercare di salvare la vita di queste piccole creature: non mi è mai stato chiesto di interrompere trattamenti, dopo che i genitori sono stati rassicurati sulla nostra volontà di accompagnare quel bambino nel suo cammino di vita usando anche tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione per evitare il dolore.
E’ molto più difficile fare accettare ai genitori l’imminenza della morte, ma in questi momenti drammatici è fondamentale che loro si accorgano che nonostante la prognosi infausta non “abbandoniamo” il loro bambino, ma continuiamo ad accudirlo con quella cura, quelle attenzioni e quell’amore che sono dovute ad ogni persona. In quest’ottica è allora fondamentale permettere ai genitori di stare il più possibile vicini al figlio anche nelle fasi terminali, consentire loro di espletare le pratiche religiose qualora lo richiedono. Questo ha arricchito ancora di più i nostri reparti e le testimonianze dei genitori che conosciamo sono sempre un’occasione di grande riflessione, di crescita umana e professionale. L’ascolto attento dei loro sentimenti (espressi o non espressi verbalmente) ci dimostra quanto sia vero che ogni vita ha valore di per sé, indipendentemente dalla sua durata e dalla sua “qualità”. E’ vero, sono cammini non semplici nei quali però dobbiamo ammettere, senza falsa ipocrisia mascherata da apparente imparzialità, che abbiamo un ruolo molto importante, perché nel modo in cui comunichiamo le diagnosi, trasmettiamo anche come viviamo certe situazioni e che “valore” diamo alla vita gravata da handicap o malattia. La responsabilità che abbiamo è allora grande e veramente non saremo in grado di sopportarla se non ci rendiamo conto che oltre alla formazione professionale, abbiamo bisogno di crescere come persone.

Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
Solo dal confronto con la singola persona potrà derivare un programma terapeutico che non avrà la caratteristiche di un documento vincolante, ma dovrà diventare un qualcosa di “vivo”, adattabile e modificabile in base a tutti i cambiamenti che si possono verificare nella vita di una persona anche nel corso di una malattia. Come dicevo prima c’è una dimensione relazionale fondamentale nella vita di ciascuno di noi che, credo, possa incidere profondamente nelle scelte terapeutiche che vengono fatte.

L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
Assolutamente sì. E’ fondamentale che chi deve affrontare situazioni drammatiche (sia esso il malato o il familiare di colui che è affetto da grave malattia) sappia di non essere solo, ed abbia la consapevolezza di poter contare su una “rete” che ha a cuore la sua persona presa nella sua globalità, capace ciò di farsi carico di tutte le sue dimensione (fisica, psichica e spirituale). Questo è vero anche per i miei piccoli pazienti: di fronte a situazioni drammatiche la paura dei genitori è legata al “dopo di noi” al non essere sicuri che nella nostra società ci sarà qualcuno che continuerà a voler bene al loro figlio e credo che sia proprio questo che spinge talvolta a gesti estremi. La mia realtà geografica sta facendo grandi passi in questa direzione, ma siamo ancora molto lontani da una situazione che permetta di rispondere alle numerose richieste. Tante cose sono portate avanti da associazioni di volontariato ma anche queste non possono essere sufficienti. Certo è che solo se saremo capaci di salvaguardare un sano sfondo antropologico, ribadendo la dignità della persona in ogni momento della sua esistenza, sarà possibile continuare a camminare in questa direzione. Il timore che certe proposte (tra cui, a mio avviso, anche il Testamento Biologico) non siano motivate dalla ricerca dell’interesse della singola persona quanto piuttosto dalla “dittatura dell’utilitarismo” nella quale il criterio fondamentale è la produttività, fa assumere alle stesse le caratteristiche di “scorciatoie” per azzerare quei problemi che non abbiamo più la capacità di affrontate e risolvere per quel “difetto di umanità” che troppo spesso sembra caratterizzare la nostra società. Attenzione però, perché, se ciò è vero, queste strade diventano l’anticamera per un progressivo abbandono di questi pazienti e delle loro famiglie. (6 - continua) (D.Q.) (Agenzia Fides 20/2/2008; righe 128, parole 1738)


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