Roma (Agenzia Fides) - Le classi dirigenti e politiche europee guardano al continente africano o come luogo dove sono possibili forti opportunità d’investimento per le imprese - seguendo la logica del mercato, così come viene questo inteso in Europa - o come luogo dove si deve fare dell’assistenzialismo, magari per emendare il proprio senso di colpa. Lo proclamano in maniera chiara, nelle loro dichiarazioni pubbliche, nei loro programmi di Governo, negli incontri bilaterali e di partenariato, nelle assisi promosse dalle Istituzioni internazionali, che naturalmente assecondano di buon grado intendimenti di questo tipo. Si assumono, così, una responsabilità ancora più grande rispetto ai guasti terribili prodotti dalla colonizzazione e dalla successiva decolonizzazione, perché trattano il tema più importante dell’epoca moderna, quella del sottosviluppo e dell’arretratezza economica di aree vastissime del pianeta, eludendo il problema centrale.
Ogni volta che si discute di come aiutare i paesi poveri, si parla sempre e solo di soldi, come se il sottosviluppo fosse il prodotto solo della mancanza di denaro e non della mancanza di libertà e quindi di cultura e educazione del popolo, di strutture sociali (sanitarie, lavorative, previdenziali) non adeguate, di personale preparato che manca a tutti i livelli, di scuole che mancano, di medici che mancano, di tecnici professionali e capaci che mancano. Del tutto, che manca.
Fatte le dovute proporzioni, tra una realtà, quella africana - caratterizzata dalla povertà estrema, dalle lotte tribali, dalle guerre e dall’endemica diffusione delle malattie, prodotte dal mancato soddisfacimento dei bisogni primari, cibo, acqua, servizi medici e igienici e dall’uso vergognoso che di quel “mercato” fa l’Occidente, nel quale concorre a diffondere droga, armi e rifiuti industriali - la logica che si consuma è analoga a quella che viene proposta ai popoli che vivono nel Sud dei paesi europei.
Da una parte il sottosviluppo e la povertà estrema, dall’altra i bisogni di masse sempre più grandi di uomini e donne che sopravvivono all’interno della soglia di povertà. Sono, questi, i dimenticati delle società del benessere, che nella maggior parte si trovano, nel terzo millennio, nella stessa situazione socio-economica di quella popolazione migrante, che la civile Europa, priva della sua identità, non sa né accogliere né integrare.
La questione centrale è che povertà estrema, lotta per la sopravvivenza e disagio sociale sono tutti fenomeni umani e, in quanto tali, sono tutti, immediatamente, e innanzitutto per questa ragione, fenomeni morali e quindi etici. Se si guardasse a questi fenomeni con questa prospettiva - la prospettiva etica dello sviluppo umano - si comprenderebbe che i soldi e i discorsi attorno ai soldi, i proclami sulla lotta alla povertà, che vengono peraltro sempre disattesi, rivestono molto meno importanza rispetto all’esigenza di sapere, di conoscenza, di cultura, di educazione, di formazione e soprattutto di spiritualità. Accade, ed anche questo andrebbe considerato, che proprio quando queste esigenze, questi bisogni, non vengono espressi, più forte e profonda si rivela la loro necessità.
Di generazione in generazione, invece, la politica europea lascia che l’umanità che soffre, dovunque si trovi, nel Sudan o in uno qualsiasi dei paesi del sud europeo, viva della sua sofferenza. Incolpevole e rassegnata. Privata della sua dignità.
Del resto, occorre anche considerare che se la cultura e la politica europee dovessero porsi l’obiettivo di una formazione di carattere etico, questo avrebbe come suo presupposto, come suo requisito imprescindibile, una radice profonda, cristiana. Sono la stessa cultura e la stessa politica europea che, negando questa radice, si rendono del tutto incapaci e inadeguati a proporre un modello autorevole e necessario per l’umanità. (S.G.) (Agenzia Fides 9/4/2008; righe 44, parole 582)