Roma (Agenzia Fides) - Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo l’intervista al Dottor Emanuele Caroppo, Medico Chirurgo, Psichiatra, Ph.D, Professore a c. di Psichiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma (CdL Tecniche della Riabilitazione Psichiatrica); Membro del Centro di Studi e Ricerche Avanzate in Psicoterapia, Istituto di Psichiatria e Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma; Dirigente Medico Psichiatra Az. U.S.L. RM H; Coordinatore del Corso di Perfezionamento universitario “Salute, Malattia e Cura in prospettiva trans-culturale ed evoluzionistica” e del Master di secondo livello in e del Master di secondo livello in “Migrazione, Cultura e Psicopatologia” dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Norme sull’introduzione del testamento biologico, devono essere sottoposte ad un’attenta valutazione da parte del Comitato di Bioetica, perché possa dare indicazione agli organi politici competenti. Il Comitato di Bioetica - che deve esprimere riflessioni ed orientamenti - deve svolgere una vera e propria funzione di garanzia rispetto all’eventuale varo di norme in questa materia.
Che cosa intende per accanimento terapeutico?
Accanimento terapeutico si verifica quando l’atto medico è un atto esclusivamente scientifico, che non tiene conto innanzitutto del paziente come persona, in senso lato e quindi non tiene conto del beneficio che può arrivare alla persona, ma solo di un protocollo tecnico per spingere in avanti nel tempo la vita.
Che cosa intende per eutanasia?
E’ il risultato della nostra cultura contemporanea. Il risultato di non riuscire a confrontarsi con l’angoscia della morte. E’ il fallimento, che vive l’individuo e la collettività nella nostra società, rispetto all’impatto psicologico di una malattia cronica e dell’angoscia di morte.
Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Ci sono indicazioni, ma non sono supportate da una riflessione specifica della classe medica, dell’intera categoria dei medici su questo argomento. Il testo del codice deontologico l’ho ricevuto per posta, ad esempio e non c’è dubbio che mi è mancato un luogo in cui generare pensiero attorno alle norme che lì sono scritte. Su un tema così importante, la discussione, il dialogo, il confronto, sono questioni fondamentali.
C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
Esiste una discrepanza, in quanto la volontà espressa dal paziente, viene espressa in un momento in cui non si ha il confronto con il medico. E’ una volontà che deriva dall’angoscia del dolore, della sofferenza, della malattia. Essendo un atto che il paziente fa da solo, può esserci una discrepanza, perché il medico potrebbe cogliere che quella espressione di volontà, in realtà è solo il tentativo di difendersi da un’angoscia, che deriva dal non vedersi come persona, come persona che ha paura, senza rendersi conto che la paura può essere affrontata, trattata e modificata. Tutte queste regole, queste norme che si vorrebbero inserire nella relazione medico-paziente, rappresentano solo tentativi di difesa dall’affrontare con il paziente tematiche angoscianti.
Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata la morte del paziente?
No.
Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
Il testamento biologico lo considero più come un atto individuale del soggetto, che non è inserito in un dialogo, in un progetto con il medico; la pianificazione dei trattamenti invece consente che l’atto medico rientri a far parte della programmazione essenziale dell’essere umano; è un qualcosa che aiuta ad orientare il percorso essenziale dell’individuo camminando insieme. Nel primo caso si è di fronte ad un atto estraneo, esterno, nel secondo si è di fronte ad un atto preventivo, che s’inserisce nel contesto di considerare la salute come cura.
L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
Sì, certamente le cure palliative costituiscono una risposta, che ci aiuterebbero a renderci conto che il dolore nella vita esiste, non si può cancellare. Credo che anche dal punto di vista del sistema familiare sarebbero una cosa molto importante. Farsi carico dell’altro - anche del dolore, della sofferenza dell’altro - è questione che appartiene all’esercizio della professione medica, ma è anche una conquista culturale di una società che vuole dirsi civile. (15 - fine) (D.Q.) (Agenzia Fides 7/3/2008; righe 68, parole 758)