EUROPA/ITALIA - Il testamento biologico: contributi alla riflessione (7)

giovedì, 21 febbraio 2008

Roma (Agenzia Fides) - Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo l’intervento del Prof Antonio Mancini. Laureatosi presso l’Università Cattolica del S. Cuore nel 1979, è Specialista in Endocrinologia, Medicina Interna ed Andrologia. Ricercatore Confermato presso l’Istituto di Patologia Speciale Medica e Semeiotica Medica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, vi svolge attività clinica nella Divisione di Endocrinologia e didattica in qualità di Professore Aggregato nella Laurea Triennale in Dietistica e nelle Scuole di Specializzazione in Endocrinologia ed Ostetricia-Ginecologia.

Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Se tale norma intendesse ascoltare i desideri del paziente - cosa peraltro già fattibile - in un’ottica di potenziamento del rapporto dialogico medico-paziente, lasciando comunque al medico il compito di prendere le decisioni in campo terapeutico, in scienza e coscienza, come indicato dalla Convenzione di Oviedo e dal Comitato Nazionale di Bioetica, certamente essa potrebbe essere ritenuta ammissibile. Il problema, però, è che le proposte di legge oggi in discussione non intendono potenziare il rapporto medico-paziente, ascoltando i “desiderata” del paziente, ma troncarlo, interromperlo sulla base di una dichiarazione anticipata di trattamento. Tale dichiarazione, assai diversa dal consenso attuale ed informato all’atto medico, alla quale troppo spesso si accosta impropriamente, vincolerebbe il medico ad una decisione presa dal paziente, mesi o anni prima dell’evento attuale, in maniera non realmente informata e consapevole. Essa sarebbe pertanto il frutto di una scelta formulata su di un unico criterio: la dignità della vita subordinata ad una “qualità” intesa soggettivamente. E’ l’auto-attribuzione o l’auto-esclusione della dignità della vita il
criterio che si nasconde dietro tali proposte, è la logica eutanasica che accetta la vita esclusivamente a certe condizioni, in cui il singolo attribuisce quando la vita sia degna o non degna di essere vissuta. A tali condizioni il giudizio non può che essere negativo.

Che cosa intende per accanimento terapeutico?
Nel 2005, il Comitato Nazionale di Bioetica ha definito l’accanimento terapeutico come la “persistenza nell’uso di procedure diagnostiche come pure di interventi terapeutici, allorché è comprovata la loro inefficacia ed inutilità sul piano dell’evoluzione positiva e di un miglioramento del paziente, sia in termini clinici che di qualità di vita”. E’ la proporzionalità della cura ciò che distingue un intervento medico da un atto di accanimento diagnostico-terapeutico, e tale decisione, pur difficile, è e deve rimanere di competenza del medico curante. Il rifiuto dell’accanimento, peraltro ribadito dal Codice di Deontologia medica, oltre che, per i credenti, dal Magistero della Chiesa Cattolica, significa riconoscere la dignità profonda della vita umana, ed ammetterne un limite inviolabile, la morte. Ostinarsi nel vano tentativo di cancellare la morte, nell’accanimento terapeutico, o anticiparla nell’eutanasia, costituiscono entrambi attacchi profondi alla dignità umana.

Che cosa intende per eutanasia?
Come eutanasia deve intendersi un’azione od omissione che, per sua natura, o nelle intenzioni, procura la morte, col fine di eliminare ogni dolore. Essa costituisce una grave offesa alla dignità della persona umana, ma anche la resa di una società che invece di prendersi cura delle persone malate, preferisce la “scorciatoia” della soppressione della vita. Per questo è fondamentale, quando non sia più possibile curare, passare al “prendersi cura”.

Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Le norme di carattere giuridico e deontologico muovono le mosse da una parte dal principio di indisponibilità della vita umana, quale bene sociale, e dall’altra dal compito primario del medico di difendere la vita umana, come espresso anche dal Giuramento di Ippocrate (“Giuro…di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell' uomo e il sollievo della sofferenza). Derivano da tali presupposti gli articoli del Codice Deontologico che vietano l’eutanasia, l’accanimento terapeutico e dispongono l’assistenza vitale al malato inguaribile.
Nel codice deontologico, dunque, sono già contenute tutte le risposte necessarie a questa problematica. Altre risposte, possibili solo muovendo da logiche diverse dalla tutela e indisponibilità della vita umana, sarebbero pertanto in aperta contraddizione con la stessa deontologia medica.

C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
La visione soggettivistica sopra esposta è alla radice di questo potenziale conflitto, che limiterebbe l’esercizio della professione medica, nella piena autonomia decisionale. L’introduzione di una norma sul testamento biologico, quindi, incrementerebbe tale conflitto, obbligando il medico a dover giustificare le scelte fatte e cercando forme di tutela legale, con ulteriore condizionamento , in
situazioni già di per sé complesse.

Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata la morte del paziente?
Non ho mai avuto denunce legali, ma mi è capitato di confrontarmi, nell’attività di guardia interdivisionale, con situazioni difficili, specie in pazienti oncologici o psichiatrici, in cui è stato delicato valutare il confine tra terapia ordinaria ed accanimento. La riflessione fatta in precedenza mi ha permesso di affrontare queste situazioni in maniera non istintiva o casuale. Attraverso il colloquio con i familiari e il consulto con altri colleghi, ho potuto cercare soluzioni condivise e serenamente accettate.

Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
La principale differenza consiste proprio nell’assenza o presenza di un rapporto dialogico medicopaziente. Mentre nella pianificazione di un trattamento e nella richiesta di un consenso informato sussiste un rapporto dialogico medico-paziente, nel caso del testamento biologico questo viene interrotto da diktat precedentemente espressi dal paziente, in una situazione peraltro diversa da quella attuale non prevedibile, e non informati. Se il rifiuto all’atto medico attuale è ammissibile come frutto di un dialogo, che talora, come è accaduto in molti casi, può coinvolgere anche la società nelle sue espressioni più alte, il rifiuto anticipato è la negazione stessa di quel rapporto.

L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
Certamente la richiesta di eutanasia nasce in primo luogo dalla paura o dalla sensazione del paziente
di sentirsi “un peso” per la famiglia e per la società. La risposta, allora, deve necessariamente essere
quella di aiutare la famiglia e il paziente nell’assistenza, attraverso l’implementazione delle cure palliative, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice, per dare più vita ai giorni, quando non sia possibile dare più giorni alla vita. Al Policlinico “A. Gemelli” di Roma esiste ed opera l’Hospice
“Villa Speranza”, ma la realtà degli hospice, delle strutture di lungodegenza e dell’assistenza domiciliare deve essere incrementata. Anziché decidere sul “quando” morire, la medicina e la società dovrebbero destinare tutti i propri sforzi sul “come” morire, sull’assistenza al morente, sul passaggio dal “to cure” al “to care” e, attraverso questo, cogliere il senso più profondo della vita stessa. (7 - continua) (D.Q.) (Agenzia Fides 21/2/2008; righe 99, parole 1151)


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