EUROPA/ITALIA - Il testamento biologico: contributi alla riflessione (5)

martedì, 19 febbraio 2008

Roma (Agenzia Fides) - Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo l’intervento della Dottoressa Laura Guerrini. Laurea in “Medicina e Chirurgia” presso l’Università degli Studi di Pisa, specializzazione in Pediatria con indirizzo Neonatologia e Patologia neonatale. Assistente di primo livello presso la U.O. di Neonatologia di Pisa. Incaricata presso la U.O. di Neonatologia di Pisa per: “Gestione, studio, verifica e controllo della ‘care’ neonatale e delle problematiche di etica nella gestione del neonato in T.I.N”.

Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Sinceramente l’ipotesi di una norma di questo tipo provoca in me una duplice reazione: rabbia e preoccupazione. Come medico intensivista, mi sento profondamente offesa, perché mi sembra che sempre più spesso siamo dipinti come degli aguzzini che utilizzano le tecnologie in maniera praticamente indiscriminata, quando invece nella mia pratica quotidiana c’è una grande attenzione alle necessità di ciascuno dei nostri piccoli pazienti e dei suoi genitori. La preoccupazione nasce dalla constatazione che il lavoro su una norma di questo tipo è stato preceduto ed è accompagnato dal continuo sbandieramento massmediatico di casi di malasanità (reali o presunti tali). Questa “politica”, a mio avviso, può avere degli effetti devastanti, di cui i testamenti biologici potrebbero essere una dimostrazione: se la sanità è così malata ed i medici sono così impreparati o, peggio, disonesti, diventa “giusto” che i cittadini sentano il bisogno di tutelarsi con dei fogli scritti ai quali penseranno di poter affidare i loro desideri più profondi (perché tali sono da considerare quelli attinenti alla grave malattia o addirittura al fine vita)!
Dovremmo però avere il coraggio di dire che questa è una “dichiarazione di sfiducia” nei confronti delle persone che la società stessa ha stabilito che siano coloro a cui mi dovrei rivolgere in momenti
particolarmente difficili della mia esistenza! Quale controsenso e quale boomerang!!!
Cosa potranno fare i medici, di fronte ad una così grande ostentazione di sfiducia, privati della loro
libertà e con le spalle al muro (visto che le proposte presentate non contemplano la possibilità di una obiezione di coscienza)?
Quello che temo è che il clima che si potrebbe respirare in certi reparti finirebbe per scoraggiare coloro che vivono la professione animati da nobili ideali, lasciando campo libero a chi, con meno scrupoli e remore, si atterrà freddamente a quello che leggerà (o penserà di leggere) con l’unico intento di evitare problemi legali! Ma siamo sicuri di volere che la medicina diventi questo?
Nel caso mi dovessi trovare in una situazione critica io non vorrei incontrare dei burocrati o peggio ancora degli “automi” che, presa visione di un foglio, decidono cosa fare senza neppure guardarmi negli occhi, ma sogno ancora di potere incontrare delle “persone”, qualcuno cioè che sia capace di guardarmi con occhi intelligenti (capaci cioè di capire cosa tecnicamente si può fare per me) ma anche con un cuore desto in grado allora di valutare le possibilità tecniche alla luce di quello che è il
mio bene!
Forse a qualcuno potrà sembrare anacronistico, ma sempre più mi convinco che l’unico antidoto alla deriva della medicina (espressione peraltro della crisi di tutta la società) sia riscoprirne la sua intrinseca dimensione relazionale e cioè il rapporto medico-paziente, sottoscrivendo quanto già negli anni ‘50 scriveva Jaspers: “Solo il medico che si relaziona ai singoli malati adempie all’autentica professione medica. Gli altri praticano un onesto mestiere, ma non sono medici”. Quello che è giusto per un paziente può non esserlo per un altro, anzi può non esserlo più per lo stesso paziente se alcune situazioni sono cambiate: ecco perché i Testamenti di vita possono essere molto pericolosi: stabilire a priori, lontano da una situazione di malattia, cosa voglio e cosa non voglio che mi venga fatto, non corrisponde alla verità del nostro essere persone, vite, cioè, in relazione con altri, le cui decisioni, tra l’altro, non sono indifferenti per chi ci è accanto.

Che cosa intende per accanimento terapeutico?
L’accanimento terapeutico è il persistere in azioni che non possono più portare alcun beneficio per il paziente. Come prima cosa sento il dovere di precisare che il termine “terapeutico” è profondamente sbagliato perché azioni di questo genere sono gia fuori da una “terapia” che per sua natura è finalizzata al bene del paziente e non è un caso che in vari testi si parli di “trattamenti futili”, “non proporzionati, privi di alcuna credibile prospettiva terapeutica”. L’astensione da tali trattamenti viene considerata in tutti i Documenti “non solo lecita, ma addirittura eticamente doverosa”, facendo altresì molta attenzione perché “l’interruzione dell’accanimento terapeutico non deve mai essere occasione o pretesto per l’abbandono terapeutico.” (CNB, Mozione sull’assistenza a neonati e a bambini afflitti da patologie o da handicap ad altissima gravità e sull’eutanasia pediatrica. 28/01/05).
Credo che tutti i medici, e soprattutto quelli che come me operano in Reparti di Terapia Intensiva, si
pongano il problema di evitare “errori” di questo tipo, nella consapevolezza che essi sono una sconfitta della medicina e del medico in una delle fasi più delicate dell’esistenza che è quella della morte. Incorrere in forme di accanimento può infatti indicare la nostra incapacità ad accettare la morte ed a volte anche il rifiuto di ammettere che non siamo onnipotenti nonostante i mezzi che abbiamo a disposizione! Non dobbiamo fare tutto quello che è tecnicamente possibile, ma solo ciò che ci permette di realizzare il bene del paziente. Ancora una volta emerge la dimensione relazionale della nostra professione che non può quindi essere “ingabbiata” in sterili protocolli, rigide linee-guida o freddi “testamenti”: non è l’uso di un apparecchio sofisticato a connotare un’azione “accanita”, ma il suo essere inutile per quel paziente, in quella precisa situazione di vita.
Con quest’ottica saremo allora capaci di essere dei medici consapevoli di non potere sempre guarire
ma di dovere sempre accompagnare le persone che si sono affidate alle nostre cure con quella presenza che viene descritta molto bene da Jaspers: “rimanere accanto al malato anche se costui è senza speranza. Il medico si offre al malato con una disposizione d’animo che gli impone di dare allo sventurato che non è in grado di guarire un massimo di possibilità di vita, ossia di continuare ad
onorare l’uomo che è in lui.”.
La mia specializzazione, per il rapido sviluppo di cui è stata protagonista negli ultimi anni, è una delle branche della medicina in cui molto si sta riflettendo su questo argomento come dimostrano i numerosi Documenti prodotti in proposito: tra questi vorrei ricordare la “Carta dei Diritti del neonato" (approvata al termine del Congresso “L’ecologia del nascere: la coppia e l’alba della vita”,
Siena, 31 marzo 2006), in cui si evidenzia come il neonato ha diritto “in caso di malattia prolungata o di prognosi gravemente patologica, a non vedersi sospendere le cure, ma ricevere tutta l’assistenza
adeguata al caso”, ad “avere un tipo di assistenza personalizzata centrata su di lui e sulla sua famiglia per promuovere il suo sviluppo”, e, in caso di stato terminale, “ad essere assistito amorevolmente e non andare incontro ad accanimento terapeutico”.
Molto importanti a tale proposito anche le “Linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica” presentate a Roma (Università Cattolica del Sacro Cuore di
Roma. Cattedra di Neonatologia e Istituto e Centro di Bioetica.) nel settembre successivo: premessa fondamentale per una corretta pratica neonatologica è mettersi davanti al neonato esaminando caso per caso (tenendo conto del rispetto della persona, della sacralità della vita e della dignità della morte) e ricordando il dovere professionale di preservare il neonato dal dolore e da trattamenti inutili e la famiglia da illusorie aspettative. Si sottolinea inoltre che “l’evidenza o la possibilità di esiti a distanza non possono costituire fattore condizionante l’assistenza” e che “il giudizio di accanimento terapeutico non include una disamina sulla qualità della vita, ma solo sulla possibilità di vita”. (5 - continua) (D.Q.) (Agenzia Fides 19/2/2008; righe 93, parole 1295)


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