EUROPA/ITALIA - Il testamento biologico: contributi alla riflessione (3)

venerdì, 15 febbraio 2008

Roma (Agenzia Fides) - Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo l’intervento del dottor Subino Angelo Giovagnoli. Medico-Chirurgo, specializzato in ortopedia e traumatologia. Responsabile dal modulo di ortopedia presso il presidio di Ronciglione (Viterbo). Docente di Storia della medicina e di logica e filosofia della scienza. Medico e volontario del soccorso della Croce Rossa Italiana. Dopo il pensionamento continua a mettere a disposizione la sua esperienza e la sua professionalità.

Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Penso che si debba fare testamento per lasciare ad altri ciò che ci appartiene. Ma la vita è l’unica cosa, insieme allo stato di salute, che ci è donata senza possibilità di scelta preventiva. Noi possiamo peggiorare o meno la salute. Constatazione e stupore devono essere i sentimenti di chiunque voglia riflettere. Concedere per legge a chiunque di disporre per l’esistenza nelle proprie condizioni terminali, significa privare il medico e tutto il personale sanitario di quella attenzione responsabile che deve accompagnare i gestori della conoscenza scientifica in tutti i campi, ma particolarmente in quello sanitario assistenziale. Significa privarli di una scelta non solo etica e deontologica, ma anche squisitamente esistenziale. La ricerca della “medietà”, rovello dei medici antichi e moderni, andrebbe perduta. Finisce la fiducia. In quarant’anni di ospedale anch’io ho avuto occasione di curare e sostenere molti malati gravi, molte persone che ho trovato dinnanzi a me, nella lunga fila che ci conduce al grande passo. E dico francamente che nessuno si poneva di questi problemi. Solo, un cenno con la mano per dire:“Basta”. Checché se ne dica i poveri e gli ignoranti, ma anche i borghesi, sapevano e sanno ancora morire con dignità sol che li si aiuti nel momento supremo. Altro che DAT.

Che cosa intende per accanimento terapeutico?
Sedare il dolore e sostenere il circolo e le funzioni vitali, secondo la mia esperienza non è mai accanimento, significa soltanto accompagnare. Per accanimento intendo proporre tecniche diagnostico- terapeutiche non più utili nel quadro della prognosi. Ippocrate consigliava i suoi aristocratici seguaci di non perdere il proprio tempo con i malati gravi, accostandosi ad una sorta di eutanasia passiva, ma si sbaglierà anche oggi se si vuol continuare a provare quando non è più l’ora.
La nostra competenza professionale si situa proprio nel riconoscere quel punto di non ritorno dell’organismo verso la morte che soltanto l’esperienza umana concede e non i soli studi.

Che cosa intende per eutanasia?
Il voler togliersi di torno il malato grave e bisognoso di continue cure, la paura inconfessata per la propria morte riflessa nella morte dell’altro, sono all’origine delle proposte eutanasiche. Di fatto l’unica utopia della medicina sarebbe ancora quella di giungere ad una morte “naturale”, per consunzione o esternazione nell’estrema senescenza. Ma anche il prefiggersi questo tipo di fine è una proposta non sempre condivisibile. Vedo dei vegliardi che si dichiarano stanchi della vita. Cercano le braccia di una nuova aurora.

Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Nel codice deontologico sono contenute norme sufficienti. Forse non specificano il momento cronologico in cui si debba staccare il respiratore automatico, ma così deve essere. Per il rispetto della persona che muore, si deve “assistere”, cioè saper restare lì e magari stendere una mano finché questa non molli la presa.

C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
C’è realmente la possibilità che qualcuno obietti al medico di non aver fatto abbastanza, nonostante la volontà contraria del paziente. Questo non è affatto calmierato dal sistema assicurativo o dalla medicina difensiva. Spesso ai medici non resta altro che “fare qualsiasi cosa, purché si faccia qualcosa”, proprio per ovviare ad eventuali rivalse. Anche questo è contro il medico e, in fondo, anche contro il malato che muore. Se il medico avesse conservato la sua dignità e il suo parere discrezionale, questo non accadrebbe. Se ci fosse ancora rispetto verso la sua figura e la sua professione questo non accadrebbe. Quando io sono entrato in ospedale a nessuno sarebbe mai venuto in mente che il primario o uno dei medici avessero potuto rinunciare a ciò che dovevano fare
fino al giusto punto, che, dopo Dio, solo loro stessi potevano e dovevano conoscere. Oggi non è più
così, ma è a scapito non solo del medico.

Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di
interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di
ristabilire un equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata
la morte del paziente?
Grazie a Dio, mai. Ho percepito vaghe minacce di parenti - non sempre stretti - sul possibile esito negativo di un intervento. Questo è andato gradatamente aumentando con il passare degli anni. Forse può spiegarsi con il fatto che nei primi 20 anni ho prestato servizio ospedaliero a t.p. come chirurgo generale e solo negli ultimi 20 anni ho avuto la responsabilità del modulo di ortopedia e traumatologia. Consiglio sempre ai colleghi di parlare chiaro, con franchezza, prima di iniziare ogni
intervento, senza però aumentare i rischi reali per difendersi “nel caso che…” Il senso della misura nelle proprie decisioni e l’ammissione dei propri limiti nell’esercizio difficile della nostra arte, sono l’unico vero segreto. In qualità di Aiuto in una divisione di chirurgia generale, sono stato obbligato a confrontarmi con urgenze di tipo traumatologico, chirurgico e…ostetrico. L’insegnamento degli altri vecchi chirurghi ospedalieri è stato per me essenziale.

Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
La differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti emerge propriamente dal parlar chiaro. Se si entra in confidenza con il paziente si può giungere ad una specie di accordo - se
non un’alleanza - terapeutici., basati sulla fiducia della persona curata verso la persona che cerca di curare ancora; ma anche centrati sulla buona volontà e sulla preparazione di quest’ultima figura: il medico.

L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
E’ troppo dire che bisognerebbe agire almeno con simpatia umana verso il malato? Io penso che il Buon Samaritano non tramonterà mai, perché non ha detto una parola: ha subito messo in pratica le
prime cure. Poi ha fatto anche di più e su questo potrebbe essere anche criticato, perché il mondo finisce per attaccare chiunque si prodighi più del dovuto a parere dell’opinione pubblica. Ma è una
questione di fede. Le cure palliative, l’assistenza domiciliare, la lungodegenza e gli hospice devono essere la risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico. Nella nostra provincia questo tipo di assistenza è - direi - sufficiente. Bisogna soltanto farlo bene. (3 - continua) (D.Q.) (Agenzia Fides 15/2/2008; righe 92, parole 1.132)


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