ASIA/MYANMAR - Una speranza per i Rohingya?

lunedì, 4 gennaio 2021 diritti umani   rifugiati   politica   cittadinanza   rohingya  

Yangon (Agenzia Fides) – C’è una speranza nel nuovo anno per il popolo dei Rohingya, una delle più importanti comunità musulmane del Myanmar, che non trova cittadinanza, pace, accoglienza. Per loro il Papa, nel suo viaggio in Myanmar del 2017, ebbe parole di profonda compassione: «Chiedo perdono ai Rohingya, oggi Dio si chiama anche così» mentre, proprio in quell’anno, si registrava il grande esodo dei Rohingya verso il Bangladesh, dove i profughi sono ormai oltre 850mila, arrivati a ondate, l’ultima delle quali nell’estate del 2017. Nelle scorse settimane il governo di Dacca ha iniziato a trasferire una parte dei profughi nell’isola di Thengar Char (anche chiamata Bhasan Char), per alleggerire la pressione sui campi profughi a Cox’s Bazar, dove sono accampati attualmente. Quanto al rimpatrio, già concordato dai due governi, verso il Myanmar, non è mai iniziato, se si esclude qualche famiglia e chi tenta il ritorno clandestinamente.
Negli ultimi mesi, in Myanmar, la nuova grande vittoria elettorale della” Lega nazionale per la democrazia” di Aung San Suu Kyi che, per la prima volta, ha candidato alle elezioni del novembre scorso anche due musulmani ora parlamentari, ha acceso un nuovo lume di speranza per quelle popolazioni martoriate. Oggi i Rohingya subiscono anche lo sfruttamento e l’oppressione di una mafia di trafficanti di esseri umani. I trafficanti promettono la fine dell’agonia per raggiungere la Malaysia o altri “porti sicuri” che molto spesso si tramuta in schiavitù.
Ma quando è iniziato tutto ciò e quanti Rohingya sono ormai rimasti in Myanmar ? Tutto inizia nel 2012, quando alcuni episodi di violenza comunitaria incendiano Sittwe, la capitale dello Stato birmano del Rakhine dove vivono almeno 80mila rohingya, un terzo degli abitanti della città e circa un decimo dell’intera comunità Rohingya del Myanmar. La guerra tra bande, nel giro di qualche mese – come riferisce un rapporto del 2013 della Ong "Pysichians for Human Rights" – si chiude con un bilancio di almeno 280 morti, circa 135mila sfollati e la distruzione di oltre 10mila abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri nello stato Rakhine.
Da allora la tensione non è mai diminuita e l’intervento dell’esercito l’ha acuita: nel 2016 l'esercito birmano ha lanciato una nuova offensiva militare nello stato Rakhine dopo che un gruppo armato dei Rohingya, l'ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army), ha attaccato alcuni convogli militari di frontiera dell’esercito birmano. L'escalation culmina con la tragedia del 2017 quando quella che gli osservatori hanno definito "pulizia etnica", operata dai militari, ha generato lo spostamento 700.000 civili Rohingya verso il Bangladesh, con l'uccisione di centinaia di persone e la distruzione di centinaia di villaggi.
Come appreso da Fides, oggi a Sittwe vivono solo 4mila Rohingya, il 5% dei musulmani che abitavano a Sittwe. Da questo quartiere-ghetto musulmano – circondato dai resti distrutti delle moschee cittadine mai ricostruite e piantonato dalla polizia – non si può uscire e non vi si può entrare. Lo stesso accade per una comunità di circa 130mila sfollati rohingya rinchiusi in una ventina di campi allestiti in gran parte alla periferia di Sittwe. Solo personale birmano vi ha accesso e dunque anche controllare le condizioni sanitarie e psicologiche degli sfollati dipende dalla buona volontà dell’esercito birmano, vero guardiano di campi che una recente indagine di “Human Rights Watch” ha definito “strutture di detenzione a cielo aperto”, dove gli sfollati sono “detenuti arbitrariamente e indefinitamente”. In tali strutture, nota l’Ong, la vita dei rohingya è quella di chi vive “agli arresti domiciliari”. “Viene loro negata libertà di movimento, dignità, occupazione e istruzione” e vivono “senza un'adeguata fornitura di cibo, acqua, assistenza sanitaria o servizi igienico-sanitari”.
(MG-PA) (Agenzia Fides 4/1/2021)


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