Giacarta (Agenzia Fides) - Arcipelago di 17 mila isole distese tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, l’Indonesia è uno degli Stati più popolosi del mondo (215 milioni di abitanti), con una cultura millenaria, oltre 250 gruppi etnici e una miscellanea di religioni, tant’è che da quando è diventato repubblica indipendente, nel 1945, il suo motto è “unità nella diversità”. Ma l’Indonesia è, soprattutto, una roccaforte dell’islam: i seguaci di Maometto sfiorano il 90% della popolazione, il che ne fa il paese con il maggior numero di musulmani al mondo e gli assegna un ruolo importante sulla scena internazionale.
Come si spiega “l’obbligo di religiosità” in Indonesia? La Costituzione del 1945, anno che apre l’era del padre fondatore Sukarno, dopo il dominio coloniale olandese, ha recepito una tendenza naturale della gente: il popolo indonesiano è profondamente religioso. La religione è alla base della vita personale, familiare e sociale, e dunque dello stato: nelle scuole se non si passa l’esame di religione non si possono fare gli altri esami, dalle elementari all’università.
Per questo la Costituzione sancisce la filosofia che è alla base dello Stato: il Pancasila, cioè la filosofia dei cinque principi (panca = cinque, sila = principio): fede in un unico Dio supremo; umanità giusta e civile; unità dell’Indonesia; democrazia guidata dalla saggezza; giustizia sociale. Proprio per questa “religiosità naturale” (che non significa teocrazia: l’Indonesia è uno stato laico), sulla carta d’identità di ogni cittadino deve sempre apparire l’indicazione della religione professata. Fatto che può generare ambiguità: ad esempio, si dice che il popolo indonesiano è musulmano al 90%, ma secondo alcuni analisti i musulmani non sono più del 55%. Molti, infatti, si dichiarano musulmani solo perché, con la maggiore età, devono indicare nei documenti l’appartenenza a una delle religioni riconosciute. E così gli animisti diventano, per lo stato, musulmani.
L’islam indonesiano, digerito nel carattere sociale tollerante della cultura giavanese (Giava è l’isola maggiore, con 100 milioni di abitanti), è tradizionalmente moderato ed è sempre coesistito pacificamente con le minoranze. Un’inversione di tendenza sembra essersi però verificata negli ultimi anni, che hanno visto la nascita e lo sviluppo di gruppi islamici estremisti. Sull’isola di Sumatra, per esempio il governo ha proibito agli stranieri di stabilirsi in Indonesia, principalmente per evitare l’arrivo di predicatori arabi, portatori di estremismo antiamericano e talvolta anticristiano. Il pericolo del fondamentalismo è reale, se si pensa che la provincia di Aceh, sull’isola di Sumatra, è venuta alla ribalta per l’introduzione della sharia. Un’ondata di protesta fondamentalista si verificò già due anni fa con i bombardamenti americani in Afghanistan e più di recente con la guerra in Iraq.
Episodi di fondamentalismo islamico si sono registrati nell’arcipelago indonesiano delle Molucche, sconvolte nel biennio 1999-2000 da una guerra civile che ha assunto tinte religiose per la presenza del movimento integralista Laskhar jihad.
Ruolo determinante, dunque, hanno le organizzazioni islamiche moderate Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah (contano nel complesso circa 70 milioni di seguaci). Spetta a leader religiosi illuminati come il cardinale Julius Riyadi Darmaatmadja, Hasym Muzadi (Nadhlatul Ulama), e Syafii Maarif (Muhammadiyah) cercare di dare al paese un contributo decisivo di armonia e unità. I leader hanno lanciato un National Moral Movement che sta lavorando alacremente a livello nazionale e internazionale per la riconciliazione, il dialogo e la pace.
(PA) (Agenzia Fides 3/7/2004 lines 43 words 438)