Il segreto di Francesco Saverio, “fuoco che accende altri fuochi”

sabato, 3 dicembre 2022 missione   evangelizzazione   santità   gesuiti  

di Gianni Valente
«Il più grande di tutti i missionari dell’età moderna». Così la monumentale Storia della Chiesa curata dal grande storico Hubert Jedin qualifica Francesco Saverio, il Santo gesuita di cui oggi si celebra la memoria liturgica. Aggiungendo che tale riconoscimento è dovuto non tanto al numero incredibile di persone da lui battezzate o ai miracoli a lui attribuiti, quanto alla sua «forza di attrazione». Anche per questo la vicenda straordinaria di Francesco Saverio - che nel 1927 Papa Pio XI ha proclamato Patrono delle missioni, insieme a Santa Teresa di Lisieux - continua a parlare al nostro presente. Soprattutto a chi anche oggi è coinvolto in un modo o nell’altro nella missione che Cristo ha affidato ai suoi.

«Un fuoco accende altri fuochi»
La forza attrattiva esercitata dal Santo gesuita si sprigionava dal dinamismo semplice e gratuito che segna da sempre il comunicaesi della fede in Cristo: Saverio, il Santo Patrono di tutti i missionari, attirava a Cristo perché a sua volta era stato attirato a Cristo. «Un fuoco accende altri fuochi», recita l’espressione cara proprio ai figli della Compagnia di Gesù. In lui, lo sprigionarsi di una inimmaginabile energia missionaria aveva il suo punto sorgivo nell’incontro avuto con Ignazio di Loyola a Parigi, quando era studente universitario e condivideva la stanza con l’altro santo gesuita Pietro Favre. Ignazio avvince quel giovane ambizioso e dal temperamento sanguigno ripetendogli una frase del Vangelo: «Che giova all’uomo conquistare il mondo intero, se poi perde se stesso?». «Quale grazia Nostro Signore mi ha fatto nell’aver conosciuto il signor Maestro Ignazio», scriverà più tardi Francesco Saverio. C’è anche lui tra i primi sette "compagni di Gesù" che il 15 agosto 1534, nella cripta della piccola chiesa di Santa Maria a Montmartre, fanno voto di servire Gesù Cristo in castità e povertà, andare in pellegrinaggio in Terra Santa o - se non fosse stato possibile - andare a Roma mettendosi a disposizione totale del Papa.
I suoi dieci anni di missione nelle Indie orientali incroceranno di tutto: mal di mare sulle navi e catechismo tra i e i cercatori di perle indiani. Morbi tropicali, fame e sete. Naufragi e fughe nelle foreste. Incontri con mercanti e schiavisti senza scrupoli. Navigazioni verso Giava, il Borneo, le Molucche, poi su verso Formosa, passando dalle terre dei tagliatori di teste e fino alle isole del Giappone. Ma tutto si sprigiona dall’intimo miracolo dell’attrattiva della grazia, attestato anche dalla promessa nella cripta di Montmartre. Per tutta la vita sarà quella la “compagnia” che lo muove, lo consola e lo sostiene. Senza quel fuoco sempre acceso, anche le storie incredibili di Francesco Saverio potrebbero a somigliare a quelle di un avventuriero spirituale insoddisfatto. Invece, tutto quello che gli accade, ha origine in un atto di obbedienza. L’ex studente di Parigi si trova scaraventato dove non avrebbe mai immaginato, e ciò accade apparentemente per caso, solo per docile sequela a quello che gli chiede Ignazio, dopo che un altro “compagno di Gesù” destinato alle Indie orientali ha dovuto rinunciare. Non rivedrà più i suoi amici. Quando parte, sa già che «in questa vita ci “vedremo” ormai solo per lettera», come scrive nella sua prima missiva. Eppure la memoria lieta e consolante di loro lo accompagnerà per sempre. Non fa che ricordarli. Scrive e riceve da loro lettere che impiegano un tempo infinito per arrivare a destinazione. E quando pensa a loro, la sua gratitudine arriva alle lacrime. Quando muore, a 46 anni, il 2 dicembre 1552, ha appeso al collo un piccolo contenitore, con dentro un reliquia dell’Apostolo Tommaso, la formula della sua professione e le firme autografe dei suoi amici ritagliate dalle loro lettere. Erano quelli i tesori che voleva sempre tenere vicino al cuore.

La missione ha come orizzonte il mondo
Il suo temperamento era estroverso carico di ottimismo, e nel contempo capace di piangere per la solitudine e l’amarezza. Ma lui stesso racconta di aver finito le lacrime solo piangendo di gioia e gratitudine. Nel gennaio 1552, quando manca eno di un anno alla fine della sua avventura terrena, annota: «Mi sembra veramente di poter dire che nella mia vita non ho mai ricevuto tanta gioia e allegrezza». Lo scrive dopo aver visto per anni le miserie umane e il miracolo dell’operare della grazia nei luoghi lontani dove lo ha spinto l’audacia dei primi gesuiti, da subito inviati ai quattro angoli del mondo, quando erano meno di dieci. «Sì, hanno scelto la vita, con tutti i suoi compromessi. […] Hanno scelto di andare nel mondo per insegnare il Vangelo, di affrontare il quotidiano, con quanto implica di tragico, di corrotto, di menzognero», scrisse il giornalista e storico Jean Lacouture nella sua opera-bestseller dedicata ai gesuiti.


Catechismo e sacramenti
In quei mondi lontani, plasmati da altre culture, segnati da tutto il bene e tutto il male che può uscire dal cuore degli esseri umani in gni tempo e in ogni terra, Francesco Saverio si avventura con scaltrezza e realismo, imparando le lingue, adattando i modi e anche le vesti alle diverse situazioni. Utilizza tutto e si adatta a tutto, perché la salvezza di Cristo sia confessata dovunque. E se oggi qualcuno teorizza che la missione si fa con le strategie social, Francesco Saverio riconosce che la grazia è trasmessa dai gesti stessi di Cristo, che sono i sacramenti: «Talmente grande è la moltitudine dei convertiti – scrive il Santo gesuita - che sovente le braccia mi dolgono tanto hanno battezzato e non ho più voce e forza di ripetere il Credo e i comandamenti nella loro lingua». Insegna il catechismo e le preghiere più semplici a bambini e adulti. Apre discorsi e confronti con i signori, i nobili e imonaci buddisti. E nelle sue lettere non mancano punture di spillo verso le oziose astrattezze di chi fa strategie o speculazioni erudite nelle accademie teologiche d’Occidente. Scrive che «Si cercano uomini che sappiano dare ragioni per vivere, perché in questi luoghi si apprezza meno il sapere e molto più la vita». E invita i suoi compagni a conversare con gli essere umani in carne e ossa, e tutti peccatori, «facendo che si aprano con voi. Questi sono i libri vivi con i quali avete da studiare, così per pregare come per vostra consolazione».

Il tramonto del missionario
A 46 anni, Francesco Saverio viene portato via dalla morte per polmonite mentre è in una capanna di foglie, sull’Isola di Sancian, davanti alla Cina (dove voleva arrivare). Con lui ha solo la compagnia di un crocifisso e di un cinese divenuto da poco cristiano, che avrebbe dovuto accompagnarlo nella sua nuova avventura per fargli da interprete. L’immagine del “tramonto del gesuita” in attesa di entrare in Cina, raccontata anche nel dramma teatrale “Il divino impaziente” di José Maria Péman, è stata riproposta più volte anche da Papa Francesco. «Il grande missionario Francesco Saverio» ha ricordato tra l’altro il Vescovo di Roma nel libro-intervista “Senza di Lui non possiamo far nulla” sull’essere missionari oggi nel mondo «finisce così, guardando la Cina, dove voleva andare e non è riuscito a entrare. Muore così, senza niente, solo davanti al Signore. Muore lì, viene sepolto, e è come quando si seppellisce un seme». È la sorte – ha aggiunto il Papa – capitata a tutti i missionari sepolti nelle terre della loro missione: «Morendo in quei posti, sono stati piantati in quella terra come dei semi». I veri missionari, e le vere missionarie, di qualsiasi tipo – ha aggiunto il Successore di Pietro - «non sono solo degli “inviati”. Non sono degli intermediari. Vanno in missione seguendo Gesù, con Gesù, insieme a Gesù. Camminano con lui. E quando sono grandi missionari, si capisce che è Lui a portare loro». (Agenzia Fides 3/12/2022)


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