photo Teresa Tseng Kuang Yi
Vatikanstadt (Fides) - Wir veröffentlichen den Beitrag von Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin anlässlich der internationalen Konferenz "100 Jahre Concilium Sinense: zwischen Geschichte und Gegenwart" (Päpstliche Universität Urbaniana, 21. Mai 2024) im Wortlaut in italienischer und englischer Fassung:
ITALIANO (ORIGINALE)
Ringrazio il Dicastero per l’Evangelizzazione e la Pontificia Università Urbaniana per aver organizzato questo Convegno, in occasione del centesimo anniversario del Concilium Sinense.
Saluto cordialmente tutti i convenuti, in modo particolare Sua Eccellenza Mons. Shen Bin: la sua presenza, in quanto Vescovo della sede che ospitò il primo Concilio plenario della Chiesa in Cina, dà particolare significato all’evento. Do ugualmente il benvenuto agli accademici e agli ecclesiastici che sono giunti dalla Repubblica Popolare Cinese per unirsi a noi oggi.
Pur rientrando nella categoria giuridica dei concili particolari, quello di Shanghai rivestì indubbiamente un significato ecclesiale più ampio: è, infatti, comunemente riconosciuto che l’assise cinese funse da modello per molti altri Paesi di missione che, sul suo esempio, negli anni successivi si sarebbero preparati a celebrare i rispettivi sinodi nazionali. Il ricordo di quanto lì avvenuto, inoltre, riveste grande valore anche per il momento attuale della Chiesa, che, su invito di Papa Francesco, è impegnata nella riflessione sulla sinodalità, come stile peculiare che qualifica la vita e la missione della comunità credente. L’essere “convocati” – questo è il significato etimologico del termine “concilium” – e il conseguente “camminare insieme” – secondo il senso della parola greca “synodos” – manifestano come il Popolo di Dio, nelle sue varie componenti, sia chiamato ad essere responsabile e protagonista della vita della Chiesa, contribuendo a plasmarne attivamente e liberamente, sotto la guida dello Spirito Santo, l’azione e lo stile. Gli echi che, attraverso le testimonianze storiche, ci giungono a tale proposito dal Concilio di Shanghai sono eloquenti: «Noi somigliamo ai modesti operai che costruiscono una cattedrale – annotava a questo proposito il Delegato Apostolico Celso Costantini – il disegno è dato dall’architetto, ma ciascuno porta il suo mattone alla grande costruzione. Per noi l’architetto è il Papa. Gli operai passano, ma la cattedrale resta» (C. COSTANTINI, Con i Missionari in Cina (1922-1933). Memorie di fatti e di idee, vol. I, XXX). E davvero l’eredità del sinodo celebrato a Shanghai rimane come un’opera grandiosa, che stabilisce la regola fondamentale delle missioni cattoliche in Cina.
A conclusione di questa sessione mattutina del Convegno, sono lieto di poter offrire alcune considerazioni soffermandomi proprio sulla figura di Celso Costantini – a me particolarmente cara – che, più di ogni altro, fu ispiratore e promotore del Concilium Sinense. La sua profondità umana, il suo spessore cristiano e la sua lungimiranza storica forniscono spunti che ritengo particolarmente preziosi ancor oggi.
Un primo tratto che mi pare significativo è il particolare contesto nel quale Costantini svolse il suo ministero. Egli dimostrò un acume non comune nel decifrare la situazione ecclesiale a lui contemporanea, rimarcandone tanto gli aspetti positivi quanto gli squilibri che la caratterizzavano: tale lucida considerazione della realtà si sarebbe rivelata decisiva nel plasmare la sua “strategia” missionaria e diplomatica, e nel confermare in lui la convinzione di celebrare un Concilio generale della Chiesa in Cina.
Com’è noto, sulla scorta delle sensibilità che andavano maturando in quel periodo in seno alla Chiesa Cattolica e alle quali, poco tempo prima, la Lettera Apostolica Maximum Illud aveva dato voce, Mons. Costantini rilevò un perdurante, e ormai eccessivo, affidamento sulla componente estera della missione: tale sbilanciamento si manifestava sia nella presenza quasi esclusiva di clero straniero, sia in una certa affezione di alcuni ambienti missionari al patronato stabilito dalle Grandi Potenze occidentali e alle modalità pastorali da esso determinate. Già prima del suo approdo in Cina, Mons. Costantini annotava tra le sue memorie: «Si capisce che le missioni estere in un primo tempo abbiano talvolta bisogno di protezione […] ma non si capisce perché queste missioni estere debbano avere un carattere permanentemente estero e politico» (Con i Missionari in Cina, vol. I, VI). Giunto, in seguito, nel grande Paese, egli dovette fare in prima persona esperienza di queste dinamiche e di come tale impostazione rischiasse talvolta di sottrarre afflato evangelico all’apostolato cattolico. Dopo un solo mese di permanenza in Cina, Costantini dovette constatare, non senza una nota di rammarico: «La religione [cristiana] è venuta nel mondo romano dalla Palestina: eppure, tra tante accuse sollevate contro di essa, non si trova quella di religione straniera o si trova semplicemente accennata. Noi siamo in Cina da oltre tre secoli. Tutta la Gerarchia ecclesiastica è [ancora] straniera. [...] È questa la Chiesa voluta da Cristo?... » (Con i Missionari in Cina, vol. I, X).
L’intento del Delegato Apostolico – così come il nostro oggi – non era certo quello di istruire un processo contro la storia. Con equilibrio, egli riconobbe il merito di molti missionari stranieri che, con senso di vera carità e dedizione, avevano portato il Vangelo in Cina e si erano prodigati per lo sviluppo sociale di quel popolo. Tuttavia, riconobbe anche che gli «aiuti umani» dati dalle Potenze straniere – per riprendere il termine da lui impiegato – pur avendo per un certo tempo tutelato e favorito l’espansione missionaria, avevano «pure portato un peso morale passivo nell’economia dell’evangelizzazione» (Con i Missionari in Cina, vol. I, XVII). Nell’ottica di Costantini diveniva, in questo modo, evidente l’urgenza di passare dal concetto di “missioni estere” a quello di “Chiesa missionaria”, come lui stesso ben annotò con la consueta schiettezza: «È concepibile che la Chiesa cattolica sia stabilita in un grande Paese sotto il controllo e la protezione di una Nazione estera? Se si tratta di missioni estere, ciò si comprende; ma se si tratta della Chiesa, ciò non si comprende affatto. E noi siamo venuti in Cina, non tanto per organizzare le missioni estere, ma per fondare la Chiesa...» (Con i Missionari in Cina, vol. I, X). Tale convinzione si accompagnava in lui alla consapevolezza che, per ridonare vigore all’evangelizzazione nel Paese, la Chiesa cattolica si sarebbe dovuta affrancare dalle vicende politiche e dagli interessi coloniali, rimanendone al di fuori e al di sopra.
L’analisi che Costantini fece del contesto cattolico cinese – così come, più in generale, le indicazioni fornite dalla Maximum Illud a cui egli si ispirava – non erano certo universalmente condivise: se ad un secolo di distanza possiamo facilmente riconoscerne la fondatezza, nel contesto di allora esse venivano, tuttavia, fortemente criticate, costando al Delegato Apostolico non poche prove e sofferenze. Gli addebiti riguardavano, innanzitutto, l’efficacia dell’impostazione generale data dalla Lettera Apostolica e mettevano in dubbio che essa fosse sufficientemente incisiva nei confronti della cultura e del Governo cinese del tempo. Secondo i detrattori, l’atteggiamento aperto che Costantini manteneva, ispirandosi ai dettami della Maximum Illud, avrebbe addirittura legittimato episodi spiacevoli – come il saccheggio delle missioni cattoliche o addirittura l’omicidio dei missionari – in realtà tutti ben lontani dalle sue responsabilità. La stampa locale di lingua straniera condusse una vera e propria campagna contro lui: il Journal de Shanghai, ad esempio, o il corrispettivo Journal de Pekin, e perfino l’Echo de Chine pubblicato da alcuni missionari, diedero spazio a numerosi articoli con critiche irriverenti verso le indicazioni romane e verso Mons. Costantini in particolare. Al biasimo, egli reagì sempre con lungimiranza: «Avverrà per la Maximum Illud – annotava già nel 1926 – quello che avvenne per la Rerum Novarum, che in certi vecchi ambienti cattolici sulle prime non incontrò favore. I vecchi ambienti disparvero, e la Rerum Novarum divenne la magna charta, venerata e incontrastata, della sociologia cristiana. Si avranno certo difficoltà in questo periodo di cambiamenti. Ma il Signore, per cui solo si lavora, ci aiuterà» (Con i Missionari in Cina, vol. I, LIX).
Allo scopo di propiziare il desiderato passaggio dalle “missioni estere” alla “Chiesa missionaria”, il Delegato Apostolico auspicava, innanzitutto, che la fede cristiana, nelle sue molteplici espressioni, potesse essere in Cina autenticamente inculturata, termine caro alla tradizione cattolica, che egli mai utilizzò ma che esprime appieno il suo pensiero e i suoi intenti. Egli, tuttavia, aveva ben presente che tale evoluzione non sarebbe stata pienamente compiuta – né sarebbe stata di per sé possibile – senza un altro fondamentale requisito: il dialogo diretto, ossia senza l’intermediazione delle Potenze, tra la Santa Sede e le Autorità del Paese. Nelle intenzioni di Costantini, i due elementi non potevano che muoversi di pari passo, come fattori complementari di un medesimo processo.
Come detto, il primo tratto della “strategia” del Delegato Apostolico era lo sforzo di calare maggiormente la fede cattolica nella vita dei Cinesi. Questo sviluppo veniva inteso in senso ampio e comprendeva differenti aspetti. La necessità di una vera plantatio ecclesiae, innazitutto, che radicasse in profondità il Cattolicesimo nella società cinese, anche attraverso la promozione di un clero indigeno. Quindi, l’inculturazione vera e propria, con l’utilizzo liturgico della lingua locale e lo sviluppo di forme espressive autoctone per veicolare l’unica ed immutabile fede. Gli sforzi in questa direzione sono, d’altra parte, facilmente rintracciabili facendo scorrere gli 861 canoni approvati proprio dal Concilio di Shanghai, dove alcuni di questi temi sono molto ricorrenti. Tale impostazione, tuttavia, era già ben presente nel pensiero di Costantini anche nel periodo precedente la celebrazione dell’assise. Egli, ad esempio, ebbe parole molto lucide a riguardo della necessità di radicare il Cattolicesimo nel contesto locale, come ben descrisse utilizzando un’immagine semplice ma eloquente: secondo lui, fino ad allora l’opera di evangelizzazione in Cina dava l’impressione di aver “trapiantato” un albero già sviluppato e ricco di fronde che, però, non aveva mai avuto la possibilità di penetrare con le proprie radici nelle profondità del suolo; ora si scorgeva, invece, la necessità di spargere dei semi che, pur impiegando tempo a crescere, avrebbero potuto radicarsi con vigore nel terreno, immagine del popolo cinese. Allo stesso modo fu chiara per lui l’urgenza di avanzare nell’opera di indigenizzazione del clero: «Checché si dica, il missionario estero è un ospite. [...] E la Chiesa deve essere naturalizzata: non può essere in perpetuo costituita da ospiti» (Con i Missionari in Cina, vol. I, LXX). Fu con questo intento in mente che egli favorì l’ordinazione dei primi sei vescovi cinesi, nel 1926, e con questo medesimo scopo fondò, l’anno successivo, la Congregazione dei Discepoli del Signore. Lucida fu, infine, la sua promozione di forme artistiche ed architettoniche locali, attraverso le quali avrebbe potuto ulteriormente concretizzarsi l’inculturazione della fede cattolica. Lo stesso Costantini era un appassionato ed uno studioso di arte cristiana ed aveva una spiccata sensibilità personale sul tema. Secondo il suo apprezzamento, la tradizione figurativa cinese possedeva notevoli risorse per esprimere il mistero cristiano, trasformandosi ed arricchendosi a sua volta nel processo: «Non basta – annotava in un’opera scritta interamente sull’argomento – prendere una donna cinese, dal viso atteggiato di modestia, e vestirla con l’abito dell’imperatrice o con quello della deessa Kuan-Hyn per farne una Madonna. Né basta imprimere alle gronde del tetto di una residenza o di una chiesa quel moto all’in su, che è proprio dei tetti cinesi, per fare dell’architettura cinese. No; l’arte è ben più profonda cosa. Cristianizzare l’arte indigena significa rinnovarla ab intus, darle innanzitutto un’anima nuova» (C. COSTANTINI, L’arte cristiana nelle missioni. Manuale d’arte per i missionari, 1940, p. 87). La medesima sensibilità egli la dimostrò sul delicato tema dell’impiego liturgico della lingua cinese: le proposte di utilizzare l’idioma locale al posto del Latino nella celebrazione dei sacramenti era stata avanzata già da Giovanni da Montecorvino alla fine del XIII secolo, ed era stata in seguito fatta propria dai Gesuiti che seguirono Matteo Ricci nel Celeste Impero. Essa trovò anche nel Delegato Apostolico Costantini un fervente sostenitore.
La plantatio ecclesiae e l’inculturazione della fede cattolica, per come intese da Costantini, non potevano tuttavia prescindere da un requisito fondamentale o, per meglio dire, da una condizione necessaria ed implicita, che ne sorreggeva l’intera struttura: ossia il legame con il Successore di Pietro. Non a caso, l’ordinazione dei primi vescovi cinesi, che avrebbe avviato la gerarchia apostolica indigena, fu voluta a Roma, nella Basilica Vaticana e per le mani dello stesso Sommo Pontefice. Questo fu un gesto di intensa bellezza e grande eloquenza: esso, manifestando la fonte di ogni autorità nella Chiesa, rendeva al contempo visibile come il Papa stesso si ponesse a garanzia di una fruttuosa indigenizzazione della Chiesa in Cina e, più in generale, dell’autentica inculturazione della sua fede. Costantini spiegò questo tema durante un discorso tenuto ad Hankow (Provincia dello Hubei): «Per venire a voi ho viaggiato sul magnifico Fiume Azzurro, che scende dal Tibet, bagna innumerevoli e fiorenti città e poi si confonde col mare. Il mare a sua volta manda le sue nubi sui monti; esse si trasformano e si condensano in nevi, le nevi si sciolgono e alimentano il fiume. È una vicenda eterna, è un continuo commercio tra il cielo e la terra, che aiuta la vita e le opere umane. Ecco la religione Cattolica, che parte dalle origini e attraversa i secoli, con un continuo commercio tra il cielo e la terra, tra Dio e l’umanità. [...] Come il fiume risale alle valli, così il Cattolicesimo risale alle fonti del Cristianesimo. Pietro, il primo Capo costituito da Cristo, non muore mai, si rinnova ininterrottamente nella persona dei suoi successori, fino all’ultimo Papa che durerà finché durerà il mondo. Questa mirabile continuità e unità di vita è il carattere saliente che anche ai profani dimostra la grandezza e la divinità della Chiesa Cattolica. Unità perfetta nel tempo e nello spazio» (Con i Missionari in Cina, vol. I, XIX). Lungo tutti i suoi scritti, il Delegato Apostolico ritornò più volte sul tema dell’unità tra il Papa e tutti i Cattolici sparsi nel mondo, qualunque fosse la loro appartenenza nazionale, chiarendo come proprio tale comunione fosse la migliore garanzia di una fede sottratta agli interessi politici esterni e saldamente ancorata nella cultura e nella società locali: «Il Papa è capo spirituale di tutti i Cattolici del mondo, a qualunque Nazione appartengano; ma questa obbedienza al Papa non solo non nuoce all’amore che ciascuno deve al proprio Paese, ma lo purifica e lo ravviva. [...] Il Papa vuole che i Cattolici cinesi amino il loro Paese e siano i migliori tra i cittadini. Il Papa ama tutte le Nazioni, come Dio, di cui è il Rappresentante; ama la Cina, vostra nobile e grande Nazione e non la mette dopo nessun’altra» (Con i Missionari in Cina, vol. I, XIV).
Come anticipato, la “strategia” missionaria e diplomatica di Costantini, oltre che sull’inculturazione e sull’indigenizzazione, si fondava su di un secondo pilastro, ossia la necessità che la Santa Sede e le Autorità cinesi instaurassero un dialogo diretto tra loro. In diverse occasioni, il Delegato Apostolico tenne a mostrare un certo distacco dalle Rappresentanze Diplomatiche straniere: stabilendo la sua residenza prima ad Hankou e poi a Pechino, ad esempio, la volle ben distante dal quartiere delle Legazioni internazionali, per evitare ogni possibile fraintendimento sulla natura della sua missione. Mantenne, inoltre, frequenti contatti e scambi proficui con i Ministri delle Potenze straniere ma ebbe, al contempo, cura di marcare una distinzione tra la sua azione e la loro: ad esempio, rifiutò più volte di godere dei buoni uffici dei Rappresentanti occidentali per essere introdotto alle Autorità del Paese, preferendo piuttosto percorrere canali puramente ecclesiastici. Tale atteggiamento non era certo motivato da ragioni di disprezzo o da false illusioni sulla maggiore efficacia dei propri mezzi. Derivava, piuttosto, dalla corretta convinzione che, in Cina, distinguere l’opera missionaria dalla politica internazionale fosse, in realtà, l’unico modo per tutelarla e per ridonarle autenticità e frutto: a tale scopo, era allora indispensabile che la Santa Sede e il Governo cinese imparassero a dialogare tra loro in modo diretto, senza intermediazioni e in una necessaria opera di reciproca scoperta. Solo così, si sarebbero potute superare le precomprensioni reciproche, in particolare quelle riguardanti il supposto carattere politico dell’attività missionaria cattolica.
Le intuizioni di Costantini, pur nel loro carattere innovativo, avevano radici profonde nella storia precedente: esse si ponevano, infatti, in linea di continuità con una lunga serie di tentativi avviati già nel XIX secolo, i quali palesavano una consapevolezza che la Sede Apostolica aveva da tempo acquisito. Ad esempio, il primo progetto di un Sinodo per l’indigenizzazione della Chiesa cinese era stato lanciato già nel 1849, su stimolo dell’Istruzione Neminem profecto, emanata quattro anni prima dalla Congregazione de Propaganda Fide per rispondere all’urgenza di formare in tutto l’orbe cattolico un clero autoctono autosufficiente. Il piano, tuttavia, era rimasto senza seguito a causa delle pressioni esterne a cui la Curia romana fu sottoposta. Allo stesso modo, e per motivi simili, erano naufragati anche i vari tentativi precedentemente attuati dalla Santa Sede e dalla Cina per stabilire reciproche relazioni. È possibile citare, a tale proposito, l’ambasciata guidata nel 1860 da Luigi Celestino Spelta, allora Vicario Apostolico dello Hubei, incaricato da Pio IX di raggiungere a suo nome l’Imperatore Tonghzhi (pronuncia Tung gê); i progetti di nuovi contatti maturati durante il Concilio Vaticano I o gli approcci tentati da Leone XIII nel 1882. E ancora, i negoziati del 1886 con la nomina di Mons. Antonio Agliardi a Nunzio Apostolico in Cina, che poi dovette essere ritirata di lì a breve; o le trattative che nel 1917 portarono all’ulteriore designazione di un Rappresentante Pontificio in Sinis – questa volta individuato in Mons. Giuseppe Petrelli – la quale anche allora dovette, però, essere annullata. I tempi, evidentemente, non erano maturi e le pressioni delle Potenze si erano rivelate decisive. Monsignor Costantini si pose idealmente, con umiltà e decisione, a ricucire sulla trama dei processi storici precedentemente interrotti.
Avviandomi alla conclusione di questo breve excursus, tengo a ripetere le parole con le quali il Delegato Apostolico, nel frattempo convocato a Roma per un nuovo ministero, si congedava da Pechino e testimoniava lo spirito con il quale egli aveva vissuto la sua missione nel Paese: «Lasciai la Delegazione Apostolica alle 4 pomeridiane del 26 ottobre 1930. Prima di salire sull’automobile, andai un momento nella cappella e rivolsi al Signore questa umile preghiera: “Vi ringrazio, mio Dio, per l’assistenza che mi avete usata in questi otto anni di soggiorno in Cina. Voi vi siete servito di uno strumento pieno di imperfezioni e di manchevolezze. Veramente avete voluto dimostrarmi che, se qualche cosa è stato fatto per le Missioni, tutto appartiene a Voi”» (Con i Missionari in Cina, vol. II, XLIX).
ENGLISH
I would like to thank the Dicastery for Evangelization and the Pontifical Urbaniana University for organizing this conference on the occasion of the 100th anniversary of the Concilium Sinense.
I cordially greet all those present, in particular His Excellency Monsignor Shen Bin: his presence, as bishop of the see that hosted the first Plenary Council of the Church in China, gives special significance to the event. I also welcome the scholars and clergy who have come from the People's Republic of China to join us today.
While entering the legal category of particular councils, that of Shanghai undoubtedly had a broader ecclesial significance: it is, in fact, commonly recognized that the Chinese assembly served as a model for many other mission countries which, following its example, prepared to celebrate their respective national synods in the years that followed. The memory of what happened there is also of great value for the present moment of the Church which, at the invitation of Pope Francis, is engaged in a reflection on synodality, as a peculiar style that qualifies the life and mission of the community of believers. The fact of being "convened" - this is the etymological meaning of the term "concilum" - and the fact of "walking together" which results from it - according to the meaning of the Greek word "synodos" - show how the People of God, in its various components, is called to be responsible and protagonist in the life of the Church, contributing to actively and freely shaping its action and style, under the guidance of the Holy Spirit. The echoes which, through historical testimonies, reach us in this regard from the Council of Shanghai are eloquent: "We resemble the humble workers who build a cathedral – noted in this regard the apostolic delegate Celso Costantini – the project is given by the architect, but everyone contributes their brick to the great construction. For us, the Pope is the architect. Workers pass, but the cathedral remains" (C. COSTANTINI, With the Missionaries in China (1922-1933). Memoirs of facts and ideas, vol. I, XXX). And indeed, the legacy of the synod celebrated in Shanghai remains as a great work, establishing the fundamental rule of Catholic missions in China.
At the conclusion of this morning session of the Conference, I am happy to be able to offer some considerations, focusing specifically on the figure of Celso Costantini - who is particularly dear to me - who, more than anyone else, was the initiator and promoter of the Concilium Sinense. His human depth, his Christian depth and his historical foresight provide insights that I still consider particularly valuable today.
A first feature that seems significant to me is the particular context in which Costantini exercised his ministry. He demonstrated an uncommon insight in deciphering the ecclesial situation of his time, highlighting both its positive aspects and the imbalances that characterized it: this lucid consideration of reality would prove decisive in shaping his missionary and diplomatic "strategy", and in confirming in him the conviction of celebrating a General Council of the Church in China.
As we know, in the wake of the sensitivities which were maturing in the Catholic Church at that time and to which, shortly before, the Apostolic Letter Maximum Illud had given voice, Monsignor Costantini noted a persistent, and then excessive, dependence on the foreign component of the mission: this imbalance was manifested both by the almost exclusive presence of foreign clerics and by a certain predilection of certain missionary circles for the patronage established by the great Western powers and the pastoral methods which resulted from it. Even before his arrival in China, Monsignor Costantini noted in his memoirs: "We understand that foreign missions initially sometimes need protection [...] but we do not understand why these foreign missions should have a definitively foreign and political character" (With the Missionaries in China, vol. I, VI).
When he arrived in the great country, he had to directly experience this dynamic and the fact that such an approach sometimes risked removing evangelical inspiration from the Catholic apostolate. After only a month in China, Costantini had to note, not without a note of regret: "The [Christian] religion came from Palestine to the Roman world: yet, among so many accusations raised against it, that of a foreign religion cannot be found or it is simply mentioned. We have been in China for more than three centuries. The entire ecclesiastical hierarchy is [still] foreign. [...] Is this the Church that Christ wanted?... » (With the Missionaries in China, vol. I, X).
The intention of the Apostolic Delegate - as well as ours today - was certainly not to institute a trial against history. With balance, he recognized the merit of many foreign missionaries who, with a sense of true charity and dedication, brought the Gospel to China and worked for the social development of this people. However, he also recognized that "human aid" from foreign powers - to use the term he used - despite having protected and favored missionary expansion for a certain time, "also had a passive moral weight to the economy of evangelization" (With the Missionaries in China, vol. I, XVII). Thus, from Costantini's point of view, the urgency of moving from the concept of "foreign missions" to that of "missionary Church" became evident, as he himself noted with his usual frankness: "Is it conceivable that the Catholic Church is established in a large country under the control and protection of a foreign nation? If it concerns foreign missions, this is understandable; but if it concerns the Church, this is not at all understandable. And we came to China, not so much to organize foreign missions as to establish the Church...". (With the Missionaries in China, vol. I, X). This conviction was accompanied by the awareness that, to restore vigor to evangelization in the country, the Catholic Church would have to free herself from political events and colonial interests, remaining outside and above them.
Costantini's analysis of the Chinese Catholic context - as well as, more generally, the indications provided by the Maximum Illud which inspired him - were certainly not universally shared: although, a century later, we can easily recognize the validity, in the context of the time, they were on the other hand strongly criticized, costing the Apostolic Delegate some trials and suffering. The objections focused first on the effectiveness of the general approach given by the Apostolic Letter and questioned whether it was sufficiently incisive with regard to the Chinese culture and government of the time. According to his detractors, Constantini's open attitude, inspired by the precepts of the Maximum Illud, would have even legitimized unpleasant episodes - such as the looting of Catholic missions or even the assassination of missionaries - in reality all far from his responsibility. The local foreign-language press led a veritable campaign against him: the Journal de Shanghai, for example, or the correspondent Journal de Pekin, and even the Echo de Chine published by some missionaries, gave space to numerous articles criticizing in an irreverent manner the Roman indications and Mgr Costantini in particular. To reproaches, he always reacted with foresight: "It will happen for Maximum Illud – he noted already in 1926 – what happened for Rerum Novarum, which initially did not find favor in certain old Catholic circles. The old circles disappeared, and Rerum Novarum became the venerated and undisputed magna carta of Christian sociology. There will certainly be difficulties in this period of change. But the Lord, for whom alone we work, will help us" (With the Missionaries in China, vol. I, LIX).
In order to promote the desired transition from “foreign missions” to the “missionary Church”, the Apostolic Delegate wished above all that the Christian faith, in its multiple expressions, could be authentically inculturated in China, a term dear to the Catholic tradition, which he never used but which fully expresses his thoughts and intentions. He was, however, well aware that such an evolution would not have been fully accomplished - nor possible in itself - without another fundamental requirement: direct dialogue, that is to say without the intermediation of the Powers, between the Holy See and the Authorities of the country. In Costantini's intentions, the two elements could only go hand in hand, as complementary factors of the same process.
As we have mentioned, the first feature of the Apostolic Delegate's "strategy" was the effort to bring the Catholic faith more fully into the lives of the Chinese. This development was understood in a broad sense and included different aspects. The need for a true plantatio ecclesiae, first of all, which would deeply root Catholicism in Chinese society, also through the promotion of an indigenous clergy. Therefore, a true inculturation, with the liturgical use of the local language and the development of indigenous forms of expression to transmit the unique and unchanging faith. Efforts in this direction are easily identifiable by scrolling through the 861 canons approved by the Council of Shanghai, where some of these themes are very recurrent. This approach, however, was already well present in Costantini's thought even in the period preceding the celebration of the council. He, for example, had very lucid words on the need to root Catholicism in the local context, as he well described using a simple but eloquent image: according to him, until then the work of evangelization in China gave the impression of having "transplanted" a tree already developed full of foliage which, however, had never had the possibility to penetrate its roots into the depths of the soil; now, however, we could see the need to sow seeds which, although takes time to grow, would be able to take root vigorously in the soil, like the Chinese people. Likewise, the urgency of advancing the work of indigenization of the clergy appeared clearly to him: "Whatever anyone says, the foreign missionary is a guest. [...] And the Church must be naturalized: she cannot be perpetually composed of guests" (With the Missionaries in China, vol. I, LXX). It is in this perspective that he favored the ordination of the first six Chinese bishops in 1926, and with this same purpose he founded the Congregation of the Disciples of the Lord the following year. Finally, his promotion of local artistic and architectural forms, through which the inculturation of the Catholic faith could be achieved, was lucid. Costantini himself was an enthusiast and scholar of Christian art and had a strong personal sensitivity on the subject. According to his appreciation, the Chinese figurative tradition possessed considerable resources for expressing the Christian mystery, by transforming itself and enriching itself: "It is not enough – he noted in a work entirely written on this subject – to take a Chinese woman, with a modest face, and to dress her in the dress of the empress or that of the goddess Kuan-Hyn to make her a Virgin Mary. Nor is it enough to give the eaves of the roof of a residence or a church the upward movement specific to Chinese roofs to make Chinese architecture. No, art is a much deeper thing. To Christianize indigenous art is to renew it ab intus, to first give it a new soul" (C. COSTANTINI, Christian art in the missions. Art manual for missionaries, 1940, p. 87). He demonstrated the same sensitivity on the delicate question of the liturgical use of the Chinese language: the proposal to use the local idiom instead of Latin in the celebration of the sacraments had already been put forward by Giovanni da Montecorvino at the end of the 13th century, then adopted by the Jesuits who followed Matteo Ricci in the Celestial Empire. It also found a fervent defender in the person of
the Apostolic Delegate Costantini.
The plantatio ecclesiae and the inculturation of the Catholic faith, as Constantini conceived them, could not, however, ignore a fundamental requirement, or rather a necessary and implicit condition, which supported its entire structure: the link with the Successor of Peter. It is no coincidence that the ordination of the first Chinese bishops, who would initiate the indigenous apostolic hierarchy, took place in Rome, in the Vatican basilica and in the hands of the Supreme Pontiff himself. It was a gesture of intense beauty and great eloquence: by manifesting the source of all authority in the Church, it made visible at the same time how the Pope himself was the guarantee of a fruitful Indigenization of the Church in China and, more generally, of the authentic inculturation of his faith. Costantini explained this theme during a speech held in Hankow (Hubei Province): “To come to you, I traveled the magnificent Blue River, which descends from Tibet, flows through countless flourishing cities and then merges with the sea. The sea in turn, sends its clouds over the mountains; they transform and condense into snow, the snow melts and feeds the river. It is an eternal affair, it is a continuous exchange between heaven and earth, which promotes the life and work of man. Here is the Catholic religion, which starts from the origins and spans the centuries, with a continuous trade between heaven and earth, between God and humanity. [...] As the river goes back to the valleys, Catholicism goes back to the sources of Christianity. Peter, the first Head constituted by Christ, never dies, he is constantly renewed in the person of his successors, until the last pope who will last as long as the world lasts. This admirable continuity and unity of life is the salient feature which, even for the layman, demonstrates the greatness and divinity of the Catholic Church. Perfect unity in time and space" (With the Missionaries in China, vol. I, XIX). Throughout his writings, the Apostolic Delegate returned several times to the theme of unity between the Pope and all Catholics scattered throughout the world, whatever their national affiliation, specifying that this communion was precisely the best guarantee of a faith freed from external political interests and firmly anchored in local culture and society: “The Pope is the spiritual leader of all Catholics in the world, to whatever nation they belong; but this obedience to the Pope not only does not harm the love that each person owes to his country, but purifies and revives it. [...] The Pope wants Chinese Catholics to love their country and be the best among its citizens. The Pope loves all Nations, like God, of whom he is the Representative; he loves China, your noble and great Nation and does not place it after any other” (With the Missionaries in China, vol. I, XIV).
As we saw above, Costantini's missionary and diplomatic "strategy" was based not only on inculturation and indigenization, but also on a second pillar, namely the need for the Holy See and the Chinese authorities to establish a direct dialogue between them. On several occasions, the Apostolic Delegate wanted to demonstrate a certain detachment from foreign diplomatic representations: by establishing his residence first in Hankou then in Beijing, for example, he wanted it well away from the vicinity of the international Legations, in order to avoid any possible misunderstanding about the nature of his mission. Furthermore, he also maintained frequent contacts and fruitful exchanges with the
Ministers of foreign Powers, while taking care to distinguish his action from theirs: for example, he refused on several occasions to take advantage of the good offices of Western Representatives in order to be introduced to the country's authorities, preferring to use purely ecclesiastical channels. This attitude was certainly not motivated by reasons of contempt or by false illusions about the greater effectiveness of its means. Rather, it derived from the just conviction that in China, distinguishing missionary work from international politics was in reality the only way to protect it and restore its authenticity and fruitfulness: to this end, it was therefore essential that the Holy See and the Chinese government learn to dialogue with each other directly, without intermediaries and in a necessary work of reciprocal discovery. Only in this way can reciprocal prejudices be overcome, in particular those which concern the supposed political nature of Catholic missionary activity.
Costantini's intuitions, even in their innovative character, were deeply rooted in previous history: they were in fact part of a long series of attempts
already started in the 19th century, which revealed an awareness that the Apostolic See had acquired long ago . For example, the first Synod project for the indigenization of the Chinese Church had already been launched in 1849, under the impetus of the Instruction Neminem profecto, published four years earlier by the Congregation of Propaganda Fide to respond to the need urgent need to form self-sufficient indigenous clergy throughout the Catholic world. This plan, however, remained a dead letter due to the external pressures to which the Roman Curia was subjected. Likewise, and for similar reasons, various previous attempts by the Holy See and China to establish mutual relations have also failed. In this regard, we can cite the embassy led in 1860 by Luigi Celestino Spelta, then Apostolic Vicar of Hubei, appointed by Pius IX to reach the Emperor Tonghzhi (pronounced Tung gê) on his behalf; the projects for new contacts developed during the First Vatican Council or the approaches attempted by Leo XIII in 1882. And again, the negotiations of 1886 with the appointment of Msgr Antonio Agliardi as Apostolic Nuncio to China, which had to be withdrawn shortly after ; or the negotiations of 1917 which led to the appointment of a new papal representative in Sinis – this time identified with Archbishop Giuseppe Petrelli – which had to be annulled. The time was clearly not right and the pressure from the Powers had proved decisive. Monsignor Costantini placed himself ideally, with humility and decision, to repair the interrupted historical processes.
As I approach the conclusion of this brief excursus, I would like to repeat the words with which the Apostolic Delegate, meanwhile summoned to Rome for a new ministry, took leave of Beijing and testified to the spirit with which he had lived his mission in the country: “I left the Apostolic Delegation at 4 p.m. on October 26, 1930. Before getting into the car, I entered the chapel for a moment and addressed this humble prayer to the Lord: “I thank you, my God, for the assistance You gave me during these eight years of my stay in China. You used an instrument full of imperfections and faults. In truth, You wanted to show me that, if anything has been done for the Missions, everything belongs to You'” (With the Missionaries in China, vol. II, XLIX).
(Fides 21/5/2024)