UGANDA - Flagellato dall’Aids è diventato un paese-laboratorio nella lotta contro la malattia Testimonianza della Signora Rose Busingye nata in Uganda e Responsabile di “Meeting Point” de Kampala (una ONG ugandese che sostiene i malati di AIDS e i loro familiari) in occasione della presentazione del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2001.

sabato, 3 aprile 2004

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Il 50% dei bambini in Uganda ha perso almeno un genitore morto per Aids. La maggioranza di questi bambini, rischia di finire sulla strada, fornendo la mano d’opera alla piccola criminalità.
Nel febbraio 2001, il Pontificio Consiglio Cor Unum, per la promozione umana e cristiana, ha destinato una donazione del Santo Padre di 500.000 euro ad alcuni progetti di Ong cattoliche locali e delle Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta. Le priorità delle iniziative finanziate da Cor Unum sono: dare una famiglia agli orfani; educazione attraverso la costruzione e il sostegno di scuole; educazione sanitaria per la prevenzione dell’Aids; formazione professionale, specialmente per quei ragazzi che provengono dal carcere minorile; fondazione di una casa per bambini malati terminali di Aids gestita dalle Missionarie di Madre Teresa di Calcutta. L’opera si è ingrandita e ora può assistere oltre 1.000 bambini. Il progetto si inserisce nel programma di lotta all’Aids affrontato a livello nazionale nel rispetto dei parametri della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Le organizzazione cattoliche sono da tempo impegnate su questo fronte: l’Uganda è diventata un paese-laboratorio nella lotta contro l’Aids; è una delle poche nazioni dove il tasso di infezione Hiv ha registrato una diminuzione: dal 9,51 all’8,30%. Questi risultati non devono essere un punto d’arrivo, ma l’inizio per un rinnovato interesse e una crescente progettualità.
Il Santo Padre si è fatto voce delle vittime di questa terribile malattia. Scrive nella Esortazione Apostolica “Ecclesia in Africa”: “La lotta contro l’AIDS deve essere ingaggiata da tutti. Facendo eco alla voce dei Padri sinodali, anch’io domando agli operatori pastorali di portare ai fratelli e alle sorelle colpiti dall’AIDS tutto il conforto possibile sia materiale che morale e spirituale”(n. 116). Dando seguito a queste indicazioni, la Chiesa cattolica si impegna nel settore in diverse forme:
- formando operatori pastorali e sanitari e dei giovani stessi;
- cercando di prevenire mediante la sensibilizzazione e l’educazione all’amore responsabile vissuto in famiglia;
- curando ed assistendo in campo sanitario con l’impiego di personale medico, attuando programmi di assistenza alle vittime e creando centri di riabilitazione e di accoglienza dei malati, oltre che all’accompagnamento dei loro familiari;
- seguendo pastoralmente i malati e i loro familiari, soprattutto quelli in stato di solitudine e di abbandono, come lo sono per esempio gli orfani dei genitori morti per AIDS.
CAFOD, CRS, Misereor e molte altre agenzie cattoliche di aiuto ed assistenza operano in questo campo in maniera coordinata a partire dal 1988. Fin dall’inizio una delle categorie ad essere presa più in considerazione sono stati i bambini. In particolare, oltre che alla cura sanitaria, è importante operare per superare la discriminazione e le paure legate alla malattia, che emarginano le vittime.
Per la Chiesa importante è un approccio globale al problema, che non si fermi alla semplice terapia o prevenzione, ma che consideri la totalità della persona e miri alla responsabilità del singolo. Determinante diventa quindi l’educazione, la relazione con la comunità, l’assunzione responsabile della vita matrimoniale e familiare.
Si sa che l’Uganda è uno dei Paesi più colpiti da questa piaga. Per esempio alla fine del 1997 la prevalenza dell’infezione da HIV negli adulti ugandesi era 9, 51%. 1.700.000 erano in quel periodo i bambini rimasti orfani per la malattia. D’altra parte in Uganda, grazie alla prevenzione, si sono fatti grandi passi in avanti nella lotta contro la malattia: in qualche zona rurale la percentuale di ragazze tra i 10 e i 20 anni con infezione da HIV è scesa da 4, 4 % nel 1989-90 a 1,4 % in 1996-7, dato delle Nazioni Unite del luglio 2000 (UNAIDS). Abbiamo voluto favorire un progetto di recupero in un Paese così colpito, per manifestare che con la buona volontà e l’aiuto di molti si possono ottenere risultati seri in questo settore.
Testimonianza della Signora Rose Busingye nata in Uganda e Responsabile di “Meeting Point” de Kampala (una ONG ugandese che sostiene i malati di AIDS e i loro familiari) in occasione della presentazione del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2001.

Il messaggio fatto vita: un lavoro con gli orfani di AIDS
“Io voglio ringraziare il Santo Padre. Mi permetterei di dire che è anche il Padre di ciò che faccio dall’inizio. La testimonianza che ci da sul valore umano, sul valore della persona, non me l’ha mai mostrato nessuno nella mia vita. Io imparo da questa instancabilità insistente sulla coscienza di ciò che l’uomo è. Voglio ringraziarLa non tanto perché ci sta dando fondi ma perché permette alla mia persona di non essere divisa. Se la fede determina il mio lavoro allora l’unità della mia persona è salvaguardata. Vale a dire il senso di responsabilità di fronte a qualcosa di più grande. Siccome tutto il mio lavoro riguarda l’uomo, occorre che la fede investa la modalità del mio agire che genera il soggetto giusto e così uno sa come trattare bene l’altro. E’ di moda fare progetti diversi ed è così facile confondere o sostituire l’uomo con quello che dobbiamo o riusciamo a fare per lui e quando le cose non quadrano siamo violenti con lui e anche con noi stessi. Ciò che importa è il valore positivo, che la tecnica ha usato, che l’uomo non sia un oggetto meccanico di meccanismi usati.
L’uomo è una situazione di bisogni. Se non percepiamo questo, se non abbiamo questa sensibilità, è come passargli accanto agli indifferenti.
In Uganda tutti fanno progetti sia per distribuire i preservativi, per difendere i diritti umani, per sconfiggere la povertà, per difendere le donne, i bambini, ecc. ma tutti sono di fronte ai progetti non alla persona. La persona non è nessuno, è ridotta ai suoi problemi. Per esempio uno ha l’Aids o ha mal di testa, sono di fronte all’Aids, non alla persona con l’Aids. Non si cura un pezzo di uomo, si cura un uomo. Toccare una parte dell’uomo implica la totalità del suo organismo.
Io lavoro con i malati di Aids, bambini, adulti e gli orfani. E’ un’avventura ed è anche divertente, mi trovo di fronte ai desideri, caratteri, bisogni, tradizione, comportamento diversi. E’ interessante proprio lavorare con ciò che si chiama “uomo e i suoi bisogni”.
Perché aiutare la gente? Chi sono per noi? E io chi sono?
Il Meeting Point (M.P.) è una esperienza concreta di un gruppo di amici che si sono trovati di fronte al problema dell’HIV/AIDS, o perché sono colpiti personalmente, o nelle loro famiglie o tra gli amici più cari desiderando di scoprire un senso nella sofferenza e nella morte. Lo scopo del M.P. è non lasciare da soli i malati di AIDS davanti alla malattia e alla morte e questo avviene attraverso una compagnia matura e quotidiana e che tiene conto di tutti i bisogni. Noi offriamo innanzi tutto un rapporto umano, un’amicizia che nel tempo si approfondisce e attraverso questo i malati, i bambini scoprono come affrontare la realtà con libertà e gioia sconosciuti prima e anche noi cresciamo con loro.
Per Alice, 46 anni Hiv/Aids da 10 anni, disperata. Cercava medicine per morire subito. Non sapevo cosa fare con lei. Prima di andare a lavorare passavo da lei, a volte stavo lì senza parole, non potevo neanche consolarla. Dopo una settimana mi ha detto piangendo: “Sai avevo mio marito, ho 6 figli, nel rapporto con mio marito è l’unico rapporto che stavo bene, mi dava senso, adesso non c’è più, è come se tutto smarrisse il senso, non ho più consistenza, sono smarrita, niente, voglio morire, aiutami a morire subito. Non lo dirò a nessuno. Da allora sono passati 8 anni. Tanti mi accusano di aver dato medicine speciali, pesa quasi 90 chili e dice: “Basta guardare qualcuno che ha un senso di vivere, vive anche lei”. Adesso fa la volontaria del Meeting Point perché vuole fare ciò che faccio io.
La nostra amicizia con i malati e le loro famiglie è una scuola dove impariamo come amare veramente e totalmente la vita delle persone e il loro destino. Il preservativo e la paura sono un modo negativo senza soluzione di affrontare la sfida dell’epidemia. Noi offriamo un rapporto psicologico ai pazienti, ai giovani e delle norme sanitarie e un corretto comportamento sessuale. Vi ho già detto che è un’avventura lavorando con gli adulti, i giovani, i bambini c’è tanto da scoprire e non puoi dire oggi: “Ho capito cosa ha bisogno l’uomo”.
E’ successo che ero contenta del tempo, dei fondi, del cibo, delle medicine che davo ai miei pazienti. Invece è successo il contrario, nonostante tutto a un certo punto i bambini invece di andare a scuola stavano nella spazzatura, rifiutavano di parlare o inventavano malattie per non andare a scuola, si nascondevano sotto i letti o dietro la casa o non volevano mangiare. I malati non volevano le medicine neanche mangiare. Mi veniva voglia di piantare tutto e di andare via. Così mi è venuta quella domanda. “Ma chi sono questi qui per me?”, “Ma chi sono io per loro?”
Fino a qualche tempo fa in Uganda ognuno sapeva di appartenere alla tribù, al clan, alla famiglia: uno sapeva di essere di qualcuno. Adesso tutto questo ha perso significato: le famiglie sono sfasciate, le tribù non si occupano più dell’interesse comune, ma soltanto d’interessi particolari. Prima il bambino apparteneva a tutta la tribù, era di un popolo e così aveva una consistenza e una dignità.
Ora i bambini, le donne si trovano senza difese, senza dignità, fino a diventare malinconici, senza voglia di vivere e senza aspettative.
Non hanno più un valore per le loro famiglie, come d’altra parte la moglie non ha più valore per il marito e il marito per la moglie. Per chi si vive? Per chi ci si sposa? Per chi si fanno i figli?
Smarrendo il senso di se stessi è stato smarrito il senso di tutto. Avendo perso il punto che dava loro significato non sanno più perché devono andare a scuola o perché devono prendere le medicine o parlare, ecc. Alla fine non si fidano di nessuno.
Il lavoro che abbiamo provato a fare è stato innanzitutto entrare in rapporto con loro: è chiaro che noi non siamo lì a sostituire i loro genitori, ma è altrettanto chiaro che noi vogliamo loro bene, che sono importanti e che hanno un valore per noi. Non si può dare un’idea di dignità espressa nella formula “essere qualcuno” se non all’interno di un rapporto.
Il M.P. è presente nei sobborghi di Kampala, Hoima e Kitgum. Kampala è una città costruita su sette colline e ai piedi di ciascuna c’è una slum. Noi giriamo ogni mattina in questi slum. Nella città c’è un gran numero di malati di Aids. Da questa cresce sempre di più il problema degli orfani. Se non sono curati vivono per le strade.
Come cresce la popolazione, anche la malattia si diffonde e questa provoca una grande confusione di giudizi e di sentimenti in cui prevalgono la paura, la vergogna e il rifiuto dei malati da parte dei parenti. Questo crea difficoltà. Non ci sono famiglie che accolgono gli orfani il cui numero aumenta.
Infatti i più colpiti dall’Aids sono donne e uomini di età tra i 20 - 45 anni, cioè la parte di popolazione più attiva. La maggior parte di essi muore dopo lunghe sofferenze e spesso in povertà, avendo dovuto abbandonare il lavoro, e senza aiuto.
Stiamo attualmente aiutando quasi 600 malati registrati nel Meeting Point, e quasi 1000 orfani in tutta la città di Kampala.
Seguiamo gli ammalati anche dal punto di vista medico, attraverso visite a domicilio e portando medicinali a quelli che non possono affrontare le spese di un ricovero ospedaliero.
Per gli orfani un grosso aiuto è il pagamento delle tasse scolastiche perché tanti di loro possono frequentare almeno le scuole primarie. Distribuiamo cibo e altri beni di prima necessità: coperte, sapone, pentole, ecc. Seguiamo le vedove e i malati anche dal punto di vista legale (problemi di eredità, adozione, ecc.).
Non sto qui a descrivere tutto ma ciò che mi interessa di comunicarvi e che mi sta a cuore è quest’uomo, ciò che riguarda l’uomo - lo so che lo sapete - ma lavorando con loro, partendo da me stessa, è più evidente vedere la debolezza perché io non posso stare in piedi da sola, è molto più facile intuire la grandezza dell’uomo e il valore inattaccabile da chiunque che egli ha.
Un uomo è qualcosa che ha dentro una complessità e una varietà di commozione, di rabbia, d’ira, di reazione, di tenerezza che è inconcepibile in qualunque altro fenomeno della natura. Allora il tempo che usiamo, i soldi, il cibo, le medicine, sono strumento per dire loro che hanno un valore più grande di tutto il valore del mondo e che sono responsabili di questo e della loro vita. Non si tratta di una responsabilità collettiva; se non passa attraverso il singolo, non serve a niente, è totalmente inutile. Per questo si ha bisogno di avere persone responsabili a cui guardare. Per essere precisi nell’usare strumenti su una persona bisogna avere amore alla persona, avere la stima per la persona.
Di fronte alla drammaticità della vita che abbiamo in Africa: malattia, guerra, conflitti, per raggiungere la nostra felicità ci vuole uno che abbia passione per la nostra dignità, che abbia rispetto per la nostra persona.
Il mio maestro mi diceva che la novità del mondo è se l’uomo appartiene, perché è in un’appartenenza che tutto cambia. Da questo può nascere una società nuova, una civiltà nuova.
Questo ho visto accadere nella mia vita e nella vita delle persone che curo. Sembrava una cosa astratta, invece ho visto le persone cambiare, i malati che pensavo fosse impossibile che cambiassero, cambiare. e cambiano anche me.
I bambini che mi chiamano mamma - perché hanno trovato la vita, Viccky prostituta: “Non so cosa sia il M.P. però quello che so è che ci sono persone che mi vogliono bene in cui io voglio vivere per loro -, i bambini di Akello, donna nel campo rifugiati.
Ecco ho detto già che l’appartenenza sembra una cosa astratta, invece è la coscienza di ciò che l’uomo è, la responsabilità verso la sua dignità cambiano il volto del mondo e possono giungere fino a rompere anche le strutture. Quello che desidero è che l’oggetto del mio lavoro sia Uno, cioè il rapporto con un amico. E questa precisione di posizione può farmi cambiare e creare una cosa nuova dentro le strutture.”
(AP) (3/4/2004 Agenzia Fides)


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